Il titolo non restituisce la ricchezza del libro di Gabriele Turi, il cui contenuto appare più ampio rispetto a quello dichiarato. Il volume ricostruisce infatti non soltanto la storia dell'emancipazione, ma anche quella della schiavitù. Dal punto di vista della geografia, poi, l'opera è davvero ambiziosa: l'autore non si limita ad analizzare la schiavitù atlantica, quella connessa alla tratta dei neri tra l'Africa e le Americhe su cui concentra comunque l'interesse, ma secondo una prospettiva di storia globale contempla pure quella africana e si spinge fino all'Estremo Oriente passando attraverso l'India. Ampio è l'arco cronologico, che abbraccia il periodo che va dalla metà del Settecento al presente, tagliando invece fuori le origini della schiavitù atlantica e il suo nesso con il colonialismo della prima età moderna. Il volume è diviso in quattro parti. Filo conduttore della prima parte, Una questione attuale, è la rimozione che ha caratterizzato nel tempo il tema della schiavitù in Occidente: in passato, certo, a partire dalla costituzione americana del 1787 e da quella francese del 1791, ma anche nel presente, se si pensa che, nelle recenti commemorazioni volte a celebrare l'abolizionismo e l'emancipazione in paesi come Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, l'attenzione è stata posta più sui meriti degli abolizionisti che sulla plurisecolare esistenza dello schiavismo. Gli schiavi potevano dunque vivere in un mondo libero o in cui la libertà era riconosciuta soltanto ad alcuni. E lo stesso vale nel mondo contemporaneo caratterizzato da nuove forme di schiavitù (lavoro forzato e sfruttamento sessuale di donne e bambini, per limitarci a due esempi): pratiche ora illegali, a differenza di un tempo, ma non per questo poco diffuse (a seconda delle categorie incluse, il numero di schiavi oggi presenti a livello mondiale oscilla tra i 27 e i 200 milioni). Nella seconda parte, L'età delle rivoluzioni e l'apogeo della schiavitù, si esamina la pratica della schiavitù in Asia (dalla Cina al Giappone, dalla Corea all'attuale Tailandia, dall'Indonesia all'India e al Nepal), in Africa e nelle Americhe, con attenzione alla legislazione che la regolamentava e legittimava. In primo piano sono sia la tratta atlantica sia la tratta orientale, delle quali si evidenziano intrecci, tratti comuni e differenze (la seconda, pluridirezionale, non seguiva le sole vie marittime e non si limitava agli schiavi), sia, ancora, quella interafricana. È nel Settecento, quando la tratta raggiunse il suo apice, che si gettarono le basi del movimento abolizionista, qui ricostruito soprattutto attraverso la cultura illuminista francese e le frange del cristianesimo che non si riconoscevano nelle chiese confessionali (importante il ruolo dei quaccheri). Le campagne abolizioniste avviate in Gran Bretagna nel tardo Settecento incontrarono notevoli resistenze a livello politico, malgrado l'ampio coinvolgimento dell'opinione pubblica, un coinvolgimento che non trovò uguali negli altri paesi colonialisti europei. La terza parte, La grande emancipazione, segue gli itinerari dell'emancipazione appunto dai primi provvedimenti presi nell'America del Nord, attraverso costituzioni che bandivano la schiavitù, alla rivolta di Saint Domingue, che avrebbe portato alla prima abolizione della schiavitù nella Francia rivoluzionaria nel 1793-1794 (fu Napoleone Bonaparte a ristabilirla nel 1802) e dato origine alla repubblica di Haiti (1804). Il percorso si snoda poi dall'abolizione della tratta (nel 1807 negli Stati Uniti e in Gran Bretagna) all'emancipazione degli schiavi in Gran Bretagna (1833) e Francia (1848), dopo che in America Latina nei primi decenni del secolo il processo si era intrecciato con quello d'indipendenza. Analizzando i fattori dell'emancipazione, Turi non condivide l'ipotesi, più volte richiamata in sede storiografica, di una tratta e di una schiavitù non più redditizie; in linea con la più recente storiografia, sottolinea invece il diffuso timore di rivolte antischiavili e si sofferma sulla resistenza manifestata dagli schiavi anche con le fughe, individuali e soprattutto collettive: è questo il grand marronage, qui interpretato non soltanto quale forma di banditismo sociale, ma altresì nei suoi legami con le grandi ribellioni di schiavi che segnarono il mondo coloniale tra Settecento e Ottocento. Nella quarta parte, Liberare e sostituire, il processo di emancipazione è seguito negli Stati Uniti (alla fine della sanguinosa guerra civile), nell'impero spagnolo (a Cuba l'emancipazione risale al 1886) e in quello portoghese (in Brasile, indipendente dal 1822, risale al 1888). Non mancano, tra le altre, indicazioni riguardo all'Africa (l'ultimo paese a dichiarare illegale la schiavitù fu la Mauritania nel 1980) e all'Asia orientale (la Corea la abolì nel 1894, la Cina nel 1906). Per spiegare la storia dell'emancipazione l'autore insiste sulla molteplicità dei fattori, richiamando l'attenzione sul malcontento degli schiavi, sulle pressioni della Gran Bretagna, nonché sulla diffusa convinzione ispirata ai principi liberisti della maggiore redditività del lavoro libero. Resta il fatto che le ultime emancipazioni di fine Ottocento furono contemporanee all'inizio di un nuovo colonialismo che trovò nella lotta contro la schiavitù uno degli elementi per giustificare rinnovate forme di dominazione in Africa e Asia. In realtà, la soppressione legale della schiavitù non implicò la nascita di una società di liberi. Esemplare appare la legislazione britannica del 1833, che assegnava agli ex schiavi lo statuto di apprenticed-labourers obbligandoli a lavorare presso gli ex proprietari senza retribuzione, per quarantacinque ore la settimana e per sei anni. Emancipazione e nascita di nuove forme di schiavitù (il lavoro coatto, che ne è oggi un esempio tipico) furono fenomeni contemporanei: sorsero così nuovi gruppi sociali, liberi dal punto di vista giuridico, ma sottoposti nella realtà a notevoli restrizioni della libertà individuale. Insomma, le schiavitù contemporanee hanno origini lontane e, per usare le parole dell'autore, "le 'vecchie' e le 'nuove' forme di schiavitù si toccano, quasi sempre si sovrappongono e si confondono", come dire che la schiavitù, al di là della sua abolizione legale, non è mai davvero finita nella pratica concreta. A cambiare sono state le sue forme, ma costante è stata la sua esistenza: una realtà drammatica che, oggi più di ieri in un'economia globalizzata, pare sfuggire a ogni forma di controllo. La sfida dell'autore è insomma riuscita: il bilancio, per una riflessione di tale ampiezza e complessità, è ampiamente positivo. Tanto più che la vicenda, ricostruita spesso pur in un'opera di sintesi attraverso la lettura diretta delle fonti citate (leggi, trattati, dichiarazioni di organismi internazionali, tra le altre), è affrontata da prospettive molteplici: se emergono in primo piano i legami tra la schiavitù e l'ordine economico e politico-sociale, non mancano infatti approfondimenti legati alla storia culturale e religiosa. Particolarmente importante per il contesto italiano, ove le pubblicazioni su schiavitù ed emancipazione non abbondano, questo libro è certo utile anche per un pubblico internazionale. Patrizia Delpiano
Leggi di più
Leggi di meno