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A saperlo, saranno contenti in pochi, ma quei pochi saranno, come me, molto contenti. Viene finalmente pubblicato in Italia il capolavoro comico e satirico di Wyndham Lewis (1884-1957), il "terzo modernista" con Eliot e Pound, l’"altro modernista" – come lo definisce Armando Pajalich nella sua prefazione –, l’artista più radicale, più isolato e più odiato di quella schiera di anglo-americani che negli anni dieci trasformarono il linguaggio della poesia e dell’arte inglesi. Lewis era ciò che si può definire un genio eclettico: era allo stesso tempo un pittore di immenso talento, uno scrittore (di talento leggermente inferiore), e un grande polemista. Sulla sua rivista "Blast", che fece uscire praticamente da solo appena prima della Grande Guerra, attaccò la faciloneria e l’autocompiacimento della borghesia, il romanticismo che egli scorgeva in molte forme di "modernismo" (non ultima quella eliotiana), e persino le avanguardie, a una delle quali – il vorticismo – pure apparteneva. Con ineguagliata ferocia si scagliò contro ogni forma artistica di moda, autoproclamandosi, prima che lo facessero gli altri, nemico per eccellenza dell’establishment culturale dell’epoca; e "The Enemy", del resto, era anche il nome di un’altra rivista curata da Lewis. Saranno contenti in pochi, si diceva: già, perché Wyndham Lewis è uno scrittore e un artista trascurato. Pajalich avanza ipotesi sulle ragioni dell’ostilità degli inglesi nei confronti di questo strano, intrattabile personaggio, e su due di queste vale la pena di soffermarsi. La prima riguarda le opinioni politiche di Lewis: come Pound e (più prudentemente) Eliot, egli pensava che il classicismo nelle arti si dovesse accompagnare a una politica autoritaria. All’inizio degli anni trenta proclamava apertamente la sua ammirazione per La ragione vera la si trova proprio nelle Scimmie di Dio: Lewis si rese insopportabile a coloro che della cultura del Novecento inglese tenevano le redini, a quelli che controllavano le case editrici e facevano e disfacevano le reputazioni letterarie della loro epoca. È proprio di costoro che Le scimmie di Dio si fa beffe: si tratta di gente del bel mondo londinese, benestante, nullafacente, impegnata in una vita di ostentazione culturale, nello scimmiottamento di Dio, ovvero del vero artista, del vero genio, che non ha più mecenati – come ci spiega Horace Zagreus, eroe del libro –, perché i mecenati si sono messi tutti, senza eccezione, a scribacchiare e a imbrattare tele. Daniel Boleyn, un completo idiota che Zagreus crede un genio (perché nemmeno Zagreus, in questa grandiosa e spietata satira, è portavoce dell’autore, anche lui prende le sue cantonate) viene iniziato alla conoscenza delle scimmie, attraverso visite mondane e ricevimenti grandiosi quanto decadenti, e ne risulta una serie di quadri di una comicità grottesca, un attacco impietoso e totale non solo a diversi riconoscibilissimi personaggi – di cui Mario Giosa stila una lista nella sua introduzione – ma anche e soprattutto a un intero mondo e alle sue aspirazioni artistiche, senza dimenticare le sue icone, Proust in primo luogo. Ma la rabbia di Lewis non si ferma qui. Le scimmie di Dio, che è del 1930, è infatti l’apoteosi del credo comico di Lewis, che egli aveva espresso già anni prima e che aveva cercato di mettere in atto, con meno successo e in modo più rigido, in opere precedenti, prima tra tutte Tarr (1918). Si tratta di una comicità antiumanistica, per non dire antiumana: i personaggi sono trasformati, attraverso accurate e grottesche descrizioni, attraverso accoppiamenti verbali insoliti, in automi, in marionette. Se la risata è un’"emozione violenta, l’equivalente della tragedia, laddove la tragedia è assente", c’è qualcosa di tragico in questa comicità, che si nutre del disprezzo assoluto che l’autore nutre nei confronti delle scimmie e, almeno in parte, dei loro castigatori (e persino di se stesso?). Nonostante Giosa chiami in causa Dickens (che in effetti costituisce un precedente di certi stratagemmi lewisiani) siamo lontani anni luce dalla divertita comprensione umana del maestro vittoriano: quella delle Scimmie non è soltanto satira contro questo o quell’uomo, ma contro l’uomo in generale, e come tale ancora più inaccettabile in un secolo che, nonostante Barthes e Derrida, rimane profondamente umanista. La traduzione di Giosa restituisce nel modo più preciso e suggestivo possibile lo stile di Lewis, e i pochi errori si possono tutto sommato perdonare in un’impresa di tali dimensioni. L’unica critica la si può semmai muovere alle note, preziose in qualche caso, più spesso superflue. L’introduzione del curatore e la prefazione di Pajalich sono preziose e contenute.
recensioni di Morini, M. L'Indice del 1999, n. 05
Hitler, che considerava "un uomo di pace", "un amico dell’Inghilterra, un vero democratico e un moralista", e nel 1939, con macabra scelta di tempo, pubblicò The Jews, Are They Human? che Paja-lich definisce "non proprio antisemita ma sufficientemente ostile". Questo spiegherebbe in parte l’oblio a cui è stato condannato Lewis, che è in tal senso la coscienza sporca dell’Inghilterra prebellica; ma T.S. Eliot, nonostante abbia scritto un’opera dettata da antisemitismo strisciante come After Strange Gods, rimane la figura più monumentale del canone inglese novecentesco; e persino di Pound, dalla sua morte in poi, è iniziata una lenta, faticosa, ma inarrestabile rivalutazione letteraria. Perché non si può dire anche di Lewis che è stato un grande artista e un grande scrittore, e che è un vero peccato che fosse anche così stolto, o – come direbbe Eliot stesso – così imprudente?
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