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recensione di De Agostini, D., L'Indice 1992, n. 6
Già presenti nei romanzi precedenti, nell'opera poetica, teatrale, saggistica di Ben Jelloun, i temi della ricerca d'identità e dell'erranza si intrecciano anche in questo lungo racconto autobiografico che si snoda attraverso una pluralità di voci e di luoghi. Se ne fa medium lo "scrivano": "Scriverò questa storia a bassa voce nella speranza di smascherare l'immagine confusa dello specchio. Si tratta di qualcuno che conosco bene, che ho frequentato per molto tempo. Non si tratta di un amico, ma di una conoscenza. Una presenza della quale non ho diffidato abbastanza. La sua inafferrabilità è irritante. È qualcuno che è sempre da un'altra parte. È un uomo che ha fretta. È appena arrivato e già sta per ripartire"; ne sono testimoni le città: Fez, abbandonata come "una sposa infedele o una cattiva madre", città sotterranea, clandestina, privata degli unici spazi di sogno, il mare, il colore, l'orizzonte; Tangeri, "libro non concluso", città senza famiglia, nŠ focolare; Tetu n, "chiusa come in una tenaglia tra due montagne", asmatica rintanata al riparo dagli sguardi e dalle mani, Parigi, isola di silenzio alla cui soglia approda l'esule che ormai confonde in uno stesso "corpo senza testa, senza volto, senza nome", le diverse tappe di un esilio senza fine; e ancora Beirut, Medina, Xios, e le rive di Creta... Ma anche le donne, "corpi femminili" amati tutti, senza eccezione, "per attraversare la notte", e subito dimenticati.
Scriba di se stesso, e reveur della propria vita, Ben Jelloun si divide in questo libro - soglia di un nuovo errare - che si perpetuerà nei romanzi successivi, "Creatura di sabbia" (1985, e Einaudi 1987), e "Notte fatale" (1987, e Einaudi 1988) - tra lo "scrittore pubblico" che raccoglie il racconto, e l'uomo privato, scrittore anch'egli, che, con la complicità ambigua del "doppio" che lo abita (I'"immensa" presenza che permette ai ricordi, confusi anch'essi, di rivivere), offre allo scrivano la propria esistenza.
All'abolizione di sé era promesso sin dall'infanzia il bambino malato, confinato in una camera dalla quale si faceva "spia" dei corpi degli altri; la sua guarigione - il recupero del corpo - è però condizione della perdita dello spazio dei sogni nel buio delle notti attraversate "danzando sul filo, sempre lo stesso, teso tra il crepuscolo e l'alba". Bambino malato, sognava la vita, adulto nostalgico della cesta che gli serviva da letto e da dimora e che non gli impediva di vivere, scriverà "invece di vivere".
Se, nella "Creatura di sabbia", Ahmed, nato donna "per errore" e obbligato dal padre, che non può sopportare il disonore di un'ottava figlia, a ricevere l'educazione di un ragazzo e a essere trattato come tale, era costretto a un'erranza continua alla ricerca di un patto tra il suo corpo e la sua immagine; se tutti gli scritti di Ben Jelloun sono attraversati dalla ferita inflitta dalla estraneità e dalla solitudine di un'esistenza segnata dall'esilio perpetuo, in questo romanzo l'autore si fa interprete di una scelta: quella di chi, diviso tra due lingue e due culture - francese e araba - ha fatto della lingua francese il luogo stesso del suo esilio, e della scrittura il luogo della separazione.
Scrivere, per "Lo scrivano", è ripercorrere la genealogia di una fatalità che vota l'essere alla scrittura: "Non smetto di rientrare a casa per non morire. Sento la mancanza del mio paese ovunque io vada, poi, quando ci torno non faccio che ripercorrere grandi passi il cammino dell'inverno, cercando un'uscita dal labirinto, una porta che si dia su uno spazio nudo, bianco, al riparo dal pensiero e dalla memoria"
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