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Il libro inizia bene, anzi benissimo. Mi sono detto: finalmente un libro che parla degli anni '70 così come sono stati veramente. E anche il ritmo lento, ondivago, divagatorio, un po' narrativo e un po' riflessivo, mi piaceva. Verso la pagina 900 il libro però un po' si perde. Inizia a raccontare (come in tanti libri italiani) le avventure erotiche dell'autore, che così forse ci vuole comunicare di non essere uno sfigato, e che con le donne ci sa fare. Poi, prende la macchina e si fa un giro, e non si capisce perché. Poi ci racconta di nuovo un episodio di 400 pagine prima, senza neanche la banale avvertenza "questo ve l'ho già raccontato". Insomma, è un po' come se non avesse un amico, un parente, una persona cara che a un certo punto gli abbia messo un braccio sulla spalla e gli abbia detto: scusa se te lo dico, ma qui c'è da tagliare. Allora lo faccio io: taglia per favore 2-300 pagine, non perché il libro sia troppo lungo, ma davvero ci sono tante pagine inutili. E forse veramente sarà il libro che da tanto si aspettava.
Come si fa a leggere per intero un libro del genere? Quasi 1300 pagine che, tra l’altro, pur se ben scritte, non trasmettono positività. Non sono “arrabbiata” come il lettore Mario ma contenta di non aver acquistato il libro ma preso in prestito. L’idea di partenza è accattivante ma poi la narrazione-saggio si disperde in rivoli che diventano fiumi di parole, divagazioni, digressioni fuorvianti (forse con funzione liberatoria per l’autore) che costringono il lettore a salti di pagine se non di interi capitoli. A volte è lo stesso l’autore a suggerire questa idea. Allora mi chiedo: perché far fare al lettore queste selezioni? Credo ci sia anche un rispetto nei confronti di chi deve leggere. La scrittura di un libro non può essere un pretesto per svuotare la propria mente da tormentoni ingombranti. Si perde così il piacere della lettura. Concordo con il lettore Alessandro “Ne esce svilito il premio Strega” ma anche il piacere della lettura.
Un libro ambizioso come in Italia non se ne scrivono più. Un romanzo di oltre mille pagine oggigiorno è un insulto alle regole del marketing editoriale. Eppure è il genere di sfide di cui la nostra letteratura ha bisogno e Albinati l’ha affrontata e - a mio avviso - superata con merito. Sì certo nel libro c’è un flusso di coscienza che lo rende dispersivo e a volte poco scorrevole ma la ricchezza del contenuto ripaga e il romanzo convince. Il marcio della società italiana degli anni 70 e 80 analizzato nelle sue radici urbane ambientali e sopratutto sociali che richiamano certe tesi di Pasolini sulla aridità e sull’ipocrisia sulla borghesia di quegli anni.
Recensioni
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Ci sono romanzi che gravitano attorno a un buco nero: un nucleo che esercita un’irresistibile forza centripeta riconducendo a sé le linee dell’intreccio, e al tempo stesso un sasso gettato nella realtà, dal quale si originano cerchi concentrici sempre più ampi. Anche La scuola cattolica appartiene a questa categoria. Il suo buco nero è la villa del Circeo dove il 29 settembre 1975 Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido sequestrarono e seviziarono per un giorno e una notte Rosaria Lopez e Donatella Colasanti (...).
La cronaca del massacro compare per la prima volta a pagina 473, e viene dopo, nell’ordine: la presentazione di una classe di preadolescenti maschi del San Leone Magno, che alle soglie della pubertà sognano ossessivamente il corpo delle donne ma sono soggetti a una feroce educazione alla virilità che è innanzitutto educazione all’omosocialità; improvvisi affondi analitici nella psicologia dello stupro; lunghe analisi del declino della famiglia borghese nella topografia benestante del quartiere Trieste di Roma (...). Sarà chiaro a questo punto che La scuola cattolica nasce dall’ambizione di radiografare un periodo storico preciso in un luogo preciso a partire dagli indici che il delitto del Circeo vi proietta come ombre e che sono per Albinati le chiavi di accesso alla sua generazione, o meglio, ai maschi della sua generazione: il sesso e la violenza, nel momento in cui il sesso cominciava a corteggiare la violenza e la violenza a inglobare il linguaggio del sesso, facendo esplodere in forme eclatanti l’eterno conflitto tra i generi.
L’ambizione di questo assunto ne farebbe in potenza un perfetto esempio di romanzo-saggio, come infatti è stato definito. Si tratta invece di un romanzo che non crede abbastanza in se stesso da diventare un saggio e di un saggio che non ce la fa a trasformarsi in romanzo perché non dimentica mai di essere un saggio. È come se Albinati svolgesse il suo teorema tre volte: la prima nella forma del Bildungsroman, la seconda in quella della riflessione psico-sociologica, la terza in quella della narrazione memoriale – tre forme discorsive, forse non a caso, che escludono la dialogicità: la prima e la terza perché sono il discorso di uno solo, la seconda perché è il discorso di tutti, quindi in definitiva di nessuno. Tra una voce narrante saccente e incerta, ma onnipresente (...) e la voce impersonale del senso comune, che spaccia per sentenze le proprie ovvietà, a smarrirsi è proprio l’arte del romanzo, quell’arte per cui, secondo Milan Kundera, mentre lo scrittore tiene alle proprie idee e alla propria voce, il romanziere non dà grande importanza né alle une né all’altra, ma insegue una verità che ancora non conosce.
Recensione di Beatrice Manetti
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