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Anno edizione: 2019
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Sono cambiati i governi e i colori dei partiti di governo; solo la politica scolastica, al cambiare dei governi, è rimasta sempre la stessa: quella dell’aziendalizzazione, dell’impiegatizzazione dei docenti, del definanziamento della Scuola pubblica (mentre aumentavano sempre più i soldi pubblici alle scuole private, in massima parte di confessione cattolica). Ebbene, se la politica scolastica è sempre la stessa malgrado il cambiare delle maggioranze di governo, ciò significa che non è più il dibattito parlamentare ad orientare i governi. La politica scolastica è decisa altrove: nei centri del potere industriale finanziario italiano, europeo, multinazionale. Per comprendere e spiegare la congiuntura attuale, il saggio di Stefano d’Errico giunge ad analizzare persino i dati delle più recenti tornate elettorali (quelli delle elezioni europee del 2019) ed il Governo attuale (il “Conte II”, con l’inedita alleanza tra “Movimento 5 Stelle”, “Partito Democratico”, “Italia Viva”, “Liberi e Uguali”), fornendo al lettore una chiave di lettura che non sarà facile leggere in altre fonti. Infine, l’Autore propone alcune possibili soluzioni al momento difficile che stiamo vivendo: prima fra tutte, la riscoperta della partecipazione personale dei docenti alla lotta per ricostruire la Scuola ripartendo proprio dall’autonomia professionale dei docenti stessi; quindi, la riscoperta del sindacalismo di base e libertario, libero da vincoli partitici e da interessi alieni al comune progresso sociale. In un momento grave come quello attualmente vissuto dall’umanità (minacciata, solo per fare uno dei tanti esempi possibili, dal rischio di apocalisse climatica e ambientale) è assolutamente necessario ricostruire un’istituzione Scuola capace di trasmettere ai giovani conoscenza, pensiero, passione. Perché possano salvarsi e salvare la civiltà umana (di cui l’Italia è uno dei principali artefici). Non per altro.
Se lo Stato italiano non ha fatto ciò, è perché ha sposato altri modelli, abbracciando una pedagogia sociale inversa, grazie alla quale oggi un docente guadagna quanto un netturbino ed è disprezzato da buona parte dei cittadini di questo Paese. Stefano d’Errico — nel suo saggio “La Scuola distrutta: trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del Paese” — fornisce le prove del processo di smantellamento progressivo (tuttora in cantiere) della Scuola e dell’Università italiane. Lo fa anzitutto con una mole imponente di dati, riferimenti storici e bibliografici: 614 pagine di testo, 17 di bibliografia, 7 di indice dei nomi. Le opinioni personali, pertanto, non sono in questo libro né gratuite né soggettive, ma fondate sull’analisi di dati oggettivi incontestabili, verificabili, incontrovertibili, e su una sintesi che non sarebbe facile reperire altrove. Il risultato di questo immenso lavoro è un vademecum di gradevole lettura, indispensabile per chiunque voglia innanzitutto comprendere la storia della politica scolastica italiana più recente, per poi farsi un’idea dei risultati di questa politica scolastica e delle sue ricadute sulla vita quotidiana degli Italiani di oggi. Una politica scolastica che si è avvalsa dell’ausilio di alcuni sindacati consociativi — legati ad alcuni partiti politici, ma potenti quasi fossero “Sindacati di Stato” — che a questa politica scolastica hanno fattivamente concesso il proprio favore, come l’Autore puntualmente dimostra. Nel procedere della lettura si comprende sempre più che nulla di quanto accaduto nel mondo dell’educazione è stato casuale. Nulla è accaduto perché «i politici sono stupidi» — come spesso oggi si sente dire — o perché «la Scuola è antiquata», o perché «gli insegnanti non sono aggiornati».
La Scuola è distrutta: questo libro ne spiega i perché Perché nell’Italia di oggi non è raro leggere articoli giornalistici con errori nella punteggiatura, nella sintassi, nell’uso dei congiuntivi? Perché moltissimi giovani sembrano non conoscere nemmeno i fondamenti del vivere civile e del rispetto per il proprio prossimo? Com’è possibile che i quiz televisivi rivelino un’ignoranza generalizzata talmente crassa e paga di sé da far sì che alcuni pongano la morte di Adolf Hitler nel 1989, mentre altri credono che gli Americani fossero alleati coi nazisti? Come mai molti quarantenni non sanno collocare sulla carta geografica né Siena né Dubai, ma non hanno mai visitato la prima, mentre conoscono a menadito tutti i locali e le attrazioni della seconda? Perché i laureati di oggi sono mediamente più vacui e superficiali di quelli di trent’anni fa? Perché raramente i loro discorsi si discostano dal vivere quotidiano, da quel che faranno nei prossimi cinque minuti, da un “orizzonte che si ferma al tetto”? Le risposte sono molteplici, ovviamente, ed hanno a che fare con la storia recente del nostro Paese, con la sociologia, con la psicologia; ma anche, moltissimo, con la politica scolastica degli ultimi trent’anni. Infatti, nel generale cambiamento che dal 1989 ha investito l’intero pianeta — generalizzando il modello economico neoliberista — sarebbe stato opportuno rafforzare l’efficacia dell’istituzione Scuola, permettendo ai docenti di lavorare in edifici accoglienti, in classi con un massimo di 20 alunni, retribuiti in modo dignitoso. Lo Stato avrebbe dovuto comunicare ai cittadini l’idea che la conoscenza e la cultura (scientifica, tecnica ed umanistica) permettono lo sviluppo del pensiero critico, e che il pensiero critico rende liberi. Avrebbe dovuto rendere più autorevole l’immagine degli insegnanti; non denigrarla; non sminuirla; non svalutarla (anche economicamente) nel retrocedere i docenti al rango di meri impiegati (e peraltro “meno produttivi”).
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