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recensione di Bini, G., L'Indice 1997, n. 7
Giunto al secondo capitolo il lettore, se possiede un'informazione non superficiale sui temi che riguardano la scuola e l'educazione, s'accorge di trovarsi di fronte a una situazione inconsueta: un'"archeologia" della scuola, come consapevolmente la chiama l'autore, dunque una ripresa di argomenti ben noti, lo interessa e lo colpisce come se fosse una novità. Vi sono infatti richiamati alcuni principi fondamentali rifacendosi ai quali si può rappresentare ciò che da qualche secolo è considerato costante nel processo educativo e nella funzione sociale dell'istituzione scolastica nella nostra civiltà: trasmettere i saperi acquisiti alle nuove generazioni e così garantire la "persistenza dei saperi raggiunti e della coesione sociale data", farle partecipi "di cose di valore acquisite dalla società adulta", di "saperi non meramente materiali" che dall'Illuminismo in poi sono stati posti alla base dell'"istruzione globale del popolo" assumendo l'aspetto d'un possibile "modello formale universale" e la sostanza d'un "modello moderno di scuola" teso a "formare dei cittadini 'adulti'" e a salvaguardare il "punto più alto della razionalità raggiunta dalla società occidentale".
È una rappresentazione nota, come si vede, che pure ha quasi il sapore della novità non solo perché esposta con notevole capacità argomentativa, ma perché a questi discorsi siamo sempre meno abituati, dato che la vastissima pubblicistica sulla scuola tende sempre più a "parlare d'altro", senza neppur troppo preoccuparsi di farsi capire: o si occupa di argomenti settoriali e specialistici o tratta di quelle che si possono chiamare le mode pedagogiche e organizzative, autoctone o importate d'oltreoceano.
Dell'ultima fra queste mode, l'autonomia, Ferroni dice che nella parte in cui non è la semplice rivendicazione di libertà d'insegnamento, di organizzazione del lavoro per gli e le insegnanti, essa significa "adesione alla richiesta del mondo esterno" e del "territorio", risposta a "spinte municipalistiche e particolaristiche", trasformazione della scuola in impresa, dei suoi dirigenti in manager (in "datori di lavoro", come li chiama qualche burocrate in vena di creatività linguistica) e soprattutto "implicito movimento verso la privatizzazione", "forma strisciante di un passaggio dal pubblico al privato", premessa d'una "riduzione della presenza dello stato nell'istruzione".
Tutto il libro è un pamphlet che svolge i suoi attacchi su due piani: la critica alla pedagogia e alla sua organizzazione accademica, e i comportamenti, le politiche, le sperimentazioni. L'autore prende di mira il "panpedagogismo", il rifiuto dell'istruzione, delle "nozioni" concrete, di "saperi" costruiti e acquisiti secondo i "punti di vista interni delle discipline", in nome di un'educazione "centrata sull'alunno"; le didattiche sedicenti democratiche; la costruzione d'un "immenso universo accademico-libresco". Nel caso dei comportamenti, colpisce lo sperimentalismo astratto, l'opposizione alla scuola come istituzione, l'adesione a movimenti "romantici", le riforme velleitarie, spesso studiate solo per curare i mali causati dagli stessi riformatori, l'infatuazione per la telematica e l'elettronica (persino per i videogiochi, considerati da un pedagogista "ministeriale" strumenti per una "grande rivoluzione epistemologica").
Della pedagogia Ferroni dice che non gli è chiaro se "rappresenti una particolare 'scienza dell'educazione' o se si ponga come la sintesi e l'orizzonte generale dell'intero sistema delle scienze dell'educazione". La questione è decisiva. La pedagogia, se si presenta come scienza, inevitabilmente si riduce a doppione, inutile se non nocivo, delle scienze dell'educazione, più agguerrite e meglio fondate. Il suo ruolo è di "filosofia dell'educazione", propositrice di fini e valori agli educatori, alla scuola e a tutta la società, e di "epistemologia" dei processi educativi. E qui, se è lecito, si dovrebbe consigliare una considerazione più attenta delle scienze dell'educazione.
Nei lontani anni settanta la sociologia e le psicologie ci hanno aiutato molto a comprendere come funziona la scuola e, in parte almeno, come funziona la persona che impara (o che non riesce a imparare). Oggi la confusione prodotta dalle mode pedagogiche e organizzative tende a impedire che insegnanti e studiosi considerino attentamente queste gravi questioni irrisolte. Il cattivo funzionamento della scuola, insieme con la perdita dell'orizzonte ideale, continua a esser causa d'una selezione "selvaggia", della quale l'ignoranza è uno degli strumenti insieme con le difficoltà sociali e culturali tradizionalmente individuate dalla sociologia; gl'insuccessi nell'apprendimento dimostrano anche che il personale insegnante ha bisogno d'una vera riqualificazione professionale scientificamente fondata. Ma per dir questo, naturalmente, il pamphlet non basta. Ci vuole una "pars construens" politica, pedagogica e scientifica, che naturalmente non attenui la durezza delle critiche (e, se si può dire, occorre far ricorso a bibliografie un po' più ampie).
recensione di Giovannone, G., L'Indice 1997, n. 7
Nell'inflazionato dibattito d'occasione che da qualche tempo è succeduto al lungo silenzio sulla scuola, il pamphlet di Giulio Ferroni si sottrae felicemente ai pigri luoghi comuni che rendono tediosa e illeggibile gran parte della produzione sull'argomento. Anzi: li infilza uno per uno, con una critica che risulta devastante proprio per la sua immediata plausibilità. La più rilevante e "scandalosa" - se davvero potesse darsi scandalo nell'entropico e svagato discorso sulla scuola dove si può impunemente dire tutto e il contrario di tutto - è indubbiamente quella relativa all'individuazione delle responsabilità.
Chiunque abbia frequentato la pubblicistica degli ultimi dieci anni sa che nessuna analisi del nostro sistema formativo può prescindere da una serie di veri e propri atti di fede: la scuola è allo sfascio, gli insegnanti (salvo alcune "lodevoli eccezioni" che qualcuno ha provato anche a quantificare, sia in percentuale che in numeri assoluti) ignoranti e lazzaroni, la classe politica latitante. In particolare nessuno, prima di Ferroni, ha messo in discussione l'incredibile, semplicistica rappresentazione per cui tutti i problemi della scuola derivano dalla sordità della classe politica, cui si contrapporrebbero le lucide analisi, le brillanti soluzioni e i meravigliosi programmi che gli studiosi e gli uomini di cultura tenevano da anni, forse da decenni nei cassetti.
Difficile dargli torto quindi quando egli denuncia "la vacuità di quella buona coscienza democratica (di 'sinistra', ma non solo) che ha ripetuto all'infinito che la responsabilità principe del dissesto della scuola italiana sarebbe costituita dall'assenza di interventi legislativi adeguati". Anche in questo campo, insomma, l'attesa della mitica Grande Riforma ha funzionato da colossale e sciagurato alibi. Le vere, le prime responsabilità, scrive Ferroni, sono della classe intellettuale, incapace di produrre riflessioni e "opere che abbiano preso di mira il problema scolastico come problema culturale e politico centrale di questa seconda metà di secolo, che con il loro vigore abbiano saputo illuminarne perentoriamente la necessità".
Si può essere d'accordo o meno con Ferroni quando esalta la vitale saldatura tra cultura e istruzione che precedette e accompagnò la riforma Gentile. Si può considerare eccessivo il suo sarcasmo contro il "panpedagogismo" asfittico e delirante cui la classe intellettuale avrebbe pilatescamente appaltato il problema dell'educazione. Ma francamente riesce difficile enfatizzare più di tanto le colpe della politica quando il mondo della cultura non le offriva che ponderose analisi sociologiche che "scoprivano" la frustrazione e il malessere degli insegnanti, rappresentazioni della scuola come istituzione che distribuisce "massicce dosi di incentivi al suicidio", o dell'Italia come un paese nelle cui stazioni si aggirano smarrite orde di analfabeti che rischiano di prendere un treno per Catania invece che per Trento perché non sanno decifrare un orario ferroviario.
Maliziosamente Ferroni applica il lessico abitualmente riservato alla classe politica - indifferenza, inerzia, latitanza - agli intellettuali. Ma sarebbe sbagliato considerarla solo una brillante provocazione. Perché il divorzio tra cultura ed educazione, l'incapacità degli intellettuali nell'elaborare un modello culturale forte per la scuola costituisce un problema molto più serio delle allarmistiche denunce sulle percentuali dei diplomati o sui criteri di reclutamento dei docenti. Un'afasia, un vuoto che si proietta anche sul presente e può forse spiegare perché la Grande Riforma, ormai in dirittura d'arrivo, non susciti nessun entusiasmo, nessuna passione, nessun fervore di dibattiti nel mondo della scuola.
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