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Sette Poemi scelti tra i complessivi ventuno e appartenenti alla prima fase dell'emigrazione, quando la Russia sovietica è alle spalle e Elabuga di là da venire; tramati di premonizioni e consonanze oniriche, e sorretti da una retorica di nuovissimo conio, da un sentimento fratello a quello che anima la voce del tribuno Majakovskij.
«Ogni sequenza, ogni verso, ogni parola vivono e risuonano solo nel punto del massimo inarcamento, come se, prerogativa e condanna insieme, potessero rivelarsi solo nella frequenza più alta, in un unisono davvero singolare di strazio e d'esultanza» - Roberto Galaverni, La Lettura
A questi canti il respiro emotivo della singola lirica va stretto, e Cvetaeva trova l'orizzonte loro piú acconcio nella cornice distesa del poema. Quando Boris Pasternak addita «il tendere al poema» di tutti i cicli cvetaeviani, coglie il sottile crinale che corre tra i due versanti: se virtualmente ogni sua costellazione di liriche aspira a farsi poema, il passaggio si realizza solo laddove il disegno complessivo giunga alla perfetta coerenza di forma e temi. Inanellati uno sull'altro, i Poemi degli anni Venti traboccano di reciproche risonanze, vibrano degli stessi, elettrici impulsi, dominati come sono dalla volontà di oltrepassare le barriere della finzione per generare accadimenti e incontri palpabili, porre riparo a eventi già occorsi, istituire orizzonti inediti. dall'Introduzione di Paola FerrettiRecensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
I Sette Poemi di Marina Cvetaeva oltrepassano la misura ristretta della lirica breve, arricchendo la materia del canto attraverso l’esplorazione temporale del passato (con apporti di temi folkloristici e fiabeschi), del presente (traendo spunto dalla cronaca caotica, febbrile e violenta di quegli anni), e di un futuro proiettato in una visione più utopica e spirituale. Il filo collante che aggrega i vari motivi presenti nelle sette composizioni è quello della ossessione amorosa, talvolta più pensata che vissuta, più desiderata che osata, come nel rapporto intenso con Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke, o con altri giovani letterati, entusiasticamente idealizzati. Sullo sfondo di questo sentimento dominante risalta la presenza fisica degli ambienti, quelli naturali (la montagna, il mare, l’aria, il cosmo) e quelli urbani e domestici (le scale, le stanze). Il tono di questi poemi è concitato, esaltato, oracolare e insieme frantumato in un respiro ansioso, sottolineato dai continui punti interrogativi ed esclamativi, quasi la poetessa cercasse in sé e in chi legge o ascolta conferme e risposte a domande lanciate nel vuoto, con la speranza di una realizzazione del desiderio o con l’angoscia di una sofferenza inutilmente repressa. Esponente di spicco del simbolismo russo, in un primo momento vicina all’energica oratoria di Majakovskij, poi rivolta a una riflessione più controllata ma sempre audacemente innovativa, Marina Cvetaeva utilizzò nei Poemi un linguaggio di grande forza espressiva, basato sull’uso della metafora, della ripetizione e della negazione, con un’originale e accorta attenzione agli effetti fonici e all’ordito sonoro dei versi, all’impiego di rime provocatoriamente facili e di costruzioni sintattiche disorientanti.
Recensioni
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Marina Cvetaeva, la vendetta della memoria
di Luca Archibugi
È assai probabile che una immagine univoca della scrittura di Marina Cvetaeva sia impossibile. Tale è la temperie degli influssi, il sovrapporsi di spinte e controspinte, le risposte variegate e molteplici alle questioni che muove la sua poesia, il mottetto – paradossale – della voce unica – questa sì – e inconfondibile, che tale agnizione di identità risulta perdersi nei riboboli più diversi, ognuno dei quali scivolando nell’altro, generando continue dissolvenze ogniqualvolta l’occhio sembra accontentarsi di una facies, o di un èidos. L’ipotiposi, subiectio sub adspectum, della Cvetaeva è indeducibile e al contempo ineludibile – costituendo, forse, il marchio, lo stemma polimorfico della sua grandezza.
Difficilissimo per chi non conosce la lingua russa, come lo scrivente, poter prescindere dalla traduzione. Dal testo originale non può giungere neanche una lontana eco. Eppure, al tempo stesso, non si può ricacciare indietro la sensazione di aver a che fare con la classica domanda di Hölderlin che informa di sé la poesia moderna: «Perché i poeti nel tempo della povertà?» Duecento anni ci separano dal poeta svevo e un centinaio, ormai, dai sette poemi della poetessa russa tradotti da Paola Ferretti. Una vera e propria edizione critica, di cui la traduzione costituisce il viatico, l’accesso primario.
Due secoli, in cui la vicinanza costituisce prossemica della lontananza. Sulle prime, sembrano mondi lontani, se non avessimo testimonianze chiarissime, ben più sottili di un’epigrafe, dell’influsso dei romantici tedeschi. Ma Hölderlin, in Cvetaeva, non può fare a meno di Heine. Il «mistico» del primo non può rinunciare all’ironia dell’altro. Tanto lo slancio lirico lambisce l’assoluto, quanto la sprezzatura, o addirittura, talvolta, la comicità, lo rende possibile, permette alle vette della «Montagna» (dà il titolo al primo dei poemi raccolti, del 1926) di riversarsi a valle, di scivolare verso il basso con il preciso intento di poter risalire. Si potrebbe anche sostenere che la risalita risulterebbe inibita senza questo clinàmen, l’uno rende possibile l’altra. E nel Poema della Montagna la chiusa aperta «Vendetta della Memoria» fa trapelare tutto l’onore della caduta, l’aspetto eroico del rialzarsi. Chiunque dispone della memoria, ma ben altro è lo scacco bruciante del ricordare. Il soprassalto lirico deve addomesticarsi, necessariamente.
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