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FOGLI, FACCE, CAMPI IN FIORE
È tutto sottosopra come dopo una frenetica e brutale perquisizione di polizia. Ovunque pile sparpagliate di giornali locali ed esteri, edizioni speciali, titoli cubitali che attirano l'occhio:È PARTITO,
con grandi foto di una faccia magra e allungata dove si legge la fatica di non lasciar trasparire né la tensione nervosa né la sconfitta; una faccia che a forza di controllarsi finisce per non esprimere più nulla. Accanto, altri esemplari di edizioni speciali posteriori proclamano con fervido trionfalismo:È TORNATO!
Sotto, la foto a tutta pagina di un volto patriarcale, chiuso e severo, fermamente determinato a non esprimere nulla.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
L'autore fa una vivida fotografia degli anni settanta in Iran, della sofferenza del popolo soggiogato dal regime dello Scià e spiega i motivi della successiva rivoluzione...Non parla della post rivoluzione il che lascia con il desiderio di sapere di più. L'ho trovato un libro straordinario. Leggerò tutti i libri di Kapuscinski!!
La penna di questo straordinario viaggiatore-narratore si sofferma stavolta sull'Iran dello Scià. Siamo nel '79, la rivoluzione khomeinista ha appena rovesciato il corrotto regime filoamericano di Pahlavi, fondato sui petrodollari e sulla voracità della classe dirigente, e instaurato un regime islamico. Kapuscinski ripercorre le vicende che hanno preceduto il crollo dello Scià, di cui ci rimane un ritratto alquanto tragicomico (non fosse per le sofferenze inflitte al suo popolo). Il finale rimane così, sospeso nell'aria: all'indomani della rivoluzione aleggia già un sentore di incertezza, e si insinua il dubbio che possa essersi trattato dell'ennesima rivoluzione gattopardesca... Una lettura che ci permette di conoscere meglio il passato per poter - meglio - comprendere il presente
Kapuscinski è un gigante del giornalismo mondiale. Questo testo è uno sguardo sull'Iran al tempo della rivoluzione. Non è una monografia storica, ma un reportage nel quale l'autore dimostra la sua grande capacità di analisi della dinamiche sociali e delle dinamiche psicologiche degli individui.
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
"Solo come un cane, senza un'anima con cui parlare, me ne resto nella stanza vuota a guardare le foto, sfogliare appunti e ascoltare le conversazioni registrate che si ammucchiano sul mio tavolo."
Parliamo della storia del Medio Oriente come se fossimo realmente competenti in materia. Tranciamo giudizi, saltiamo alle conclusioni, specie in periodi di crisi come il nostro, senza riflettere sulla realtà degli eventi storico-politici che hanno formato il substrato su cui poi si sono radicate posizioni anche estremiste, più o meno moderate.
Al centro dell'attenzione mondiale è oggi l'Afghanistan (paese sul quale non sappiamo pressoché nulla e di cui abbiamo quasi ignorato l'esistenza perlomeno sino all'epoca dell'invasione sovietica), ma il vicino Iran (paese sul quale invece crediamo di sapere molto di più) ha una storia recente, addirittura recentissima che è stata dimenticata in fretta. Pochi ricorderanno che lo scià Reza Pahlavi non era l'ultimo erede di un'antica dinastia di regnanti, ma il figlio di un comandante quasi analfabeta che la fortuna, il caso e l'abilità hanno portato al comando del paese. E la violenza con la quale padre e figlio hanno mantenuto il potere e hanno sedato ogni dissenso è forse oggi obliata, ma proprio su quella miopia politica ha potuto insediarsi il germe della rivolta e un nuovo regime altrettanto chiuso e intollerante.
Ryszard Kapuscinski è a Teheran tra il 1979 e il 1980, quando Khomeini prende il potere. È lì durante i combattimenti nelle strade e quando in televisione si susseguono gli appelli alla ricerca degli scomparsi, in realtà vittime negli anni della polizia politica (la Savak) e più recentemente degli scontri. È lì e fotografa la situazione, ma tenta anche un ritratto più globale delle condizioni storiche in cui questa rivolta si è attuata.
Punta l'indice contro la Cia e contro lo scià, ricordando che alcune figure "illuminate" sono apparse nel panorama politico nazionale troppo presto e non sono riuscite a cambiare il corso della storia, "a trovarsi troppo presto nel giusto si rischia di rimetterci la carriera, e a volte la vita". La resistenza iraniana (i cosiddetti feddayin iraniani) era composta da operai, studenti, scrittori, studiosi, ma furono avversati sia dallo scià (e di conseguenza dall'Occidente che del governo di Reza Pahlavi era strenuo sostenitore) che dai mullah. Di tutti loro "non è sopravvissuto un solo uomo".
Kapuscinski dà anche una chiave di lettura del ruolo perverso che il petrolio ha ricoperto nella storia di questi paesi: forse meglio non averlo, perché non porta benessere generalizzato, non è la soluzione dei problemi, regala danaro ai potenti: "Con il petrolio - diceva l'ultimo scià - creerò un seconda America nel corso di una generazione! E invece non l'ha creata. Il petrolio è potente, ma ha i suoi limiti: non sostituisce né il pensiero né l'intelligenza. Una delle sue qualità più seducenti per i sovrani è quella di rafforzare il potere. Il petrolio produce grossi profitti, ma dà lavoro a poca gente. Il petrolio non genera molti problemi sociali: non crea né un proletariato numeroso, né una numerosa borghesia, per cui il governo, non essendo obbligato a dividere i profitti, può disporne a suo piacimento..."
La seconda parte del saggio di Kapuscinski si concentra sui giorni della rivoluzione. E ne fa un'analisi attenta cogliendo le cause di un'evoluzione religioso-integralista che rapidamente prende piede nel paese. I fautori di una democrazia, che non s'impone con la forza ma deve essere votata dalla maggioranza, si dimostrarono immediatamente i più deboli, i perdenti nel nuovo equilibrio di potere che si stava formando. La maggioranza voleva quel che voleva Khomeini: una repubblica islamica. Grazie all'influente apparato gerarchico dello sciismo iraniano (l'autore descrive in più riprese e in maniera molto chiara la divisione tra sciiti, gruppo di minoranza nel mondo islamico ma di maggioranza in Iran, e sunniti) il governo si è stabilizzato, anche se oggi forti spinte liberiste e democratiche stanno spingendo per il superamento della teocrazia fondata da Khomeini. Anche su questo l'autore dà una sua valutazione estremamente interessante.
Mi sembra importante terminare con una considerazione di valore universale molto importante, valida in ogni situazione analoga a quella iraniana: "Un popolo oppresso da un despota e ridotto al ruolo di oggetto cerca un rifugio, un luogo dove nascondersi, barricarsi, essere se stesso. È l'unico modo per mantenere la propria identità e perfino la propria normalità. Non potendo emigrare nello spazio, il popolo intraprende una migrazione nel tempo e fa ritorno a un passato che, paragonato ai dolori e ai pericoli della realtà circostante, gli appare come un paradiso perduto. Trova rifugio in usanze antiche: tanto antiche, quindi tanto sacre, che il potere non osa combatterle. Accade così che, sotto il tappo della dittatura, contro e malgrado il suo volere, si assiste a una progressiva rinascita di costumi, simboli e credenze di una volta, caricati di un significato nuovo e provocatorio. Il processo comincia in modo vago, spesso clandestino ma, via via che la dittatura si fa più insopportabile e opprimente, aumenta di peso e portata. Certuni vi vedono una regressione verso il Medioevo. Può darsi. Di solito, però, questo è il modo scelto dal popolo di esprimere la propria opposizione. Il potere si presenta come simbolo di modernità e progresso? E noi gli facciamo vedere che coltiviamo altri valori. Si tratta, più che del desiderio di recuperare il perduto mondo ancestrale, di una contrapposizione politica. Appena la vita migliora, la vecchia usanza perde immediatamente la sua valenza emotiva per tornare a essere quello che era: solo una formula rituale."
A cura di Wuz.it
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