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Marina Jarre non è uno dei nomi celebri della letteratura italiana, ma dovrebbe diventarlo. In questi tre saggi sui generis indaga con sguardo acuminato i piccoli eventi della Storia (una sfilata di prigionieri di guerra tedeschi a Mosca nel 1944) e i grandi eventi della Vita (amori e perdite) con una compassione che non diventa mai compatimento.
Recensioni
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Sfugge a qualsiasi definizione questo libro di Marina Jarre. Sarebbe finanche troppo semplice cavarsela dicendo che è un libro matrioka, adoperando la metafora da lei stessa scelta per introdurre, a metà dell'opera, la fiaba su cui Il silenzio di Mosca fa perno. L'incastro è molto più complicato, una sola matrioka non basta. Le nonne si nascondono nelle fiabe che raccontano ai nipoti, confessa. E il libro è certo scritto guardando i nipoti che crescono, ma questo suo ultimo lavoro nasconde tante altre cose.
Come tutti i lavori di Jarre questo è soprattutto un libro sulla guerra: la nonna di Cappuccetto Rosso, d'altra parte, non si nascondeva nella pancia del lupo? E proprio nulla di dolciastro c'è nella fiaba del cigno nero di Münster. I nipoti di Jarre non si trovano in una posizione invidiabile: sono chiamati a crescere alla svelta, molto alla svelta. Per fortuna si difendono con mezzi loro e con discreti risultati; d'altronde la ricerca di protezione, di sicurezza da sempre accompagna l'accento straniero di questa scrittrice, che, a partire dal precedente Ritorno in Lettonia, sembra però essere stata definitivamente catturata dalla storia.
Il libro si presenta come la somma di tre conversazioni: con Pavel l'insegnante di russo, con l'amica Patti e con Gino, autore di centoquarantaquattro lettere dal fronte russo. Nei sottotitoli delle tre conversazioni la parola guerra ritorna tre volte, l'amore due, la solitudine e l'amicizia una volta soltanto. Come a dire che la guerra e l'amore non si possono quasi mai scindere, né dall'uno o dall'altra si può prescindere. La solitudine e l'amicizia talora ci concedono, per fortuna, qualche sosta. Potremmo chiarire meglio. Esile come tutti i libri di Jarre, questo contiene in nuce progetti per almeno una decina di libri autonomi; della fiaba s'è detto, ma bisognerebbe aggiungere: due saggi di moralità (sull'amore per gli animali e sulla botanica); un saggio storico stricto sensu, dove l'autrice, senza uscire dallo studio di casa sua, trova l'occorrente per ricostruire la sfilata di prigionieri tedeschi a Mosca dopo la disfatta di Stalingrado. È un saggio di bravura che, penso, potrà generare invidia a molti esperti di micro-storia. Un affresco storiografico di rara bellezza, che per effetto di risonanza va a ricadere nell'altro libro nel libro che poco più innanzi è costruito sul sapiente montaggio di lettere dal fronte russo di un soldato italiano, il giovane telegrafista Gino Moretti. Anche Gino è un vinto della storia, che scrive lettere d'amore struggenti alla sua Anita (qui il problema storiografico è lo stesso indicato da Pier Giorgio Zunino e cioè il progressivo rompersi della fiducia nell'alleato tedesco da parte dei soldati italiani). Non basta. L'autrice confessa la sua passione per i racconti partigiani e allora eccola farsi gioco di una vecchia partigiana che, intervistata alla televisione, non riesce a spiegare la ragione della sua "scelta": ne deriva una pagina sulle ragioni della lotta resistenziale, degna di stare accanto all'analisi di Pavone. E non basta ancora: nell'economia di un testo relativamente breve troviamo il reportage giornalistico filtrato attraverso la meticolosa ricostruzione dell'ascensione di Mallory e Irvine sull'Everest (1924), al solito ricostruito su fonti originali; lo storico di Torino troverà infine la testimonianza sulla città all'indomani delle leggi razziali (l'episodio della solidarietà espressa ad Arnaldo Momigliano è molto toccante) e l'angoscia dei bombardamenti sulla città vissuti da un'angolatura del tutto inedita e spiazzante (quella di Gino in Russia, che apprende della distruzione di San Salvario dalla radio).
Le singole parti del libro (qualcosa devo aver dimenticato) si ricompongono alla fine, con un gioco di rinvii interni in parte voluto, in parte casuale che prende alla gola. Realtà, immaginazione, verità, verosimiglianza: temi su cui s'interrogano gli storici alle prese con i modi del narrare.
Le Enneadi di Plotino goffamente citate da un personaggio, con l'accento sulla "a" della prima parola e sulla "o" della seconda, non sono soltanto l'espressione di una beata ignoranza, ma anche l'emblema della buffa casualità della vita. "Nessuna strada conduce indietro", il proverbio di Ritorno in Lettonia, trova qui una sua variopinta, argomentata, applicazione. Cresce il disincanto, la riflessione sulla vecchiaia, la morte che conserva l'amore in eterno nel deserto di Masada o sulla cima dell'Everest. Con il passare degli anni l'autrice di Negli occhi di una ragazza (1971), Un leggero accento straniero (1972), I padri lontani (1987), Tre giorni alla fine di luglio (1993), Un altro pezzo di mondo (1997) sembrerebbe approdare al journal intime. Il libro, in effetti, dopo averci fatto fare per due volte almeno il giro del mondo, trova la parola fine sul cortile dell'Oltrepo, "povero, nitido, odoroso di fumo di legna", ma si vorrebbe non finisse mai. Alberto Cavaglion
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