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Io ho trovato il libro nell'edizione Einaudi molti anni fa a metà prezzo, abbandonato su una bancarella. Qualche anno dopo ho intrapreso l'avventura di leggerlo. Si tratta di un'opera densa, non facile da attraversare ma splendidamente scritta. Un grande affresco della Mitteleuropa. Consigliato per palati buoni.
Il libro continua ad essere introvabile in italiano. Esiste solo all'estero, ma prima di dovermi accontentare di una traduzione in inglese o francese, pregherei anch'io l'Einaudi di farne una ristampa. Altrimenti, ditecelo, e ci risparmiate un'inutile attesa.
Trilogia pesante chè puo essere letta solo in occasione di un esame universitario. Le vicende sono poco interessanti,banali,i personaggi piatti,il paesaggio grigio e monotono.
Recensioni
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recensione di Schiavoni, G., L'Indice 1998, n. 1
Gli estimatori di Michelangelo Antonioni ricorderanno forse che, in un'inquadratura del film "La notte" (1961), Monica Vitti reca in mano "I sonnambuli" di Hermann Broch: un testo arduo e sofisticato, incastonato in fotogrammi impervi, aventi come minimo comun denominatore la solitudine contemporanea. Nessuna sorpresa che già il coraggioso e sfortunato editore dell'opera, Daniel Brody, proprietario del Rhein Verlag di Zurigo, scrivesse a Broch: ""I sonnambuli", mio caro, alimenteranno la sua fama, ma non il suo patrimonio".
A dire il vero, sia quel grande romanzo che il suo autore, per quanto ormai ampiamente studiati internazionalmente, sono rimasti alquanto ai margini nella circolazione della cultura danubiana in Italia, pur così di moda da alcuni decenni. La riproposta einaudiana della trilogia dei "Sonnambuli "in un solo volume nella ben nota traduzione della Bovero può perciò costituire un'occasione importante per avvicinarsi a un pensatore e narratore che ha saputo resistere alle sirene del "mito absburgico" e dell''"Austria felix" ed è riuscito a discendere con rigorosa esattezza concettuale - come annotava qualche anno fa Claudio Magris - "sino alle radici dell'amore e dell'angoscia, al fondo dello smarrimento epocale vissuto e patito da ogni individuo, smascherando implacabilmente il meccanismo della seduzione, dell'insidiosa e perfetta simulazione della verità".
Ebreo di rigorosa formazione scientifica passato poi al cattolicesimo, nato a Vienna nel 1886 e spentosi in America, a New Haven, nel 1951 (dopo un volontario esilio in Tirolo, un periodo nelle carceri naziste, l'emigrazione negli Stati Uniti nel 1938, la cittadinanza americana, la cattedra di letteratura tedesca a Yale), Hermann Broch condusse un'esistenza segnata quasi schizofrenicamente - come per Kafka o per Svevo - dalla spinta insopprimibile a dedicarsi alla "vita letteraria": con una svolta radicale, a quarantun anni decise di liquidare l'azienda tessile paterna da lui diretta, per votarsi alla filosofia, alla matematica e alla letteratura.
Di questo raffinato pensatore - descrittoci da Elias Canetti in un passo del suo "Gioco degli occhi" come "un uccello, grande e bellissimo" al quale fossero state mozzate le ali - il lettore italiano avrà probabilmente nella memoria almeno anche il volume di racconti "Gli incolpevoli "(uscito nel 1950 e tradotto dall'editore Einaudi nel 1963), il romanzo postumo "Sortilegio" (Rusconi, 1983), parabola sull'avvento del nazismo, e il capolavoro "La morte di Virgilio", pubblicato nel 1947 e" "riproposto da Feltrinelli nel 1993 con un'indimenticabile introduzione di Ladislao Mittner.
Broch ha la consapevolezza di trovarsi a vivere in una civiltà che mira a occultare la "decadenza", il "Wert-Vakuum" (ossia il "vuoto dei valori") da cui è corrosa. Si sa immerso in un clima culturale che tenta di dissimulare la propria corsa verso il nulla, che ammanta il vuoto etico-stilistico mediante la facciata, mediante l'"ornamento" o il "kitsch", inerte palliativo del venir meno di quel "grande stile" ch'era ancora capace di dare senso a tutta un'epoca (ad esempio al medioevo cristiano), un fenomeno al quale egli ha dedicato pagine memorabili radunate qualche anno fa in un volumetto dal titolo "Il kitsch" (Einaudi, 1990), oltre che nello splendido saggio "Hofmannsthal e il suo tempo" (contenuto nell'ormai introvabile raccolta "Poesia e conoscenza" degli editori Lerici, 1965, e riedito in volume a sé stante dagli Editori Riuniti nel 1981).
Agli occhi di questo "scrittore suo malgrado" (come fu definito da Hannah Arendt) che si prefisse di tramutare la letteratura in "impazienza del conoscere" e che perseguí la sua meta nutrito da mille dubbi, l'Europa moderna appare segnata proprio dall'eclisse dei valori e dal progressivo depauperarsi degli individui. Si direbbe che - nell'interpretazione brochiana - il fenomeno coinvolga non solo il mondo tardo-absburgico, ma l'intero orizzonte culturale del moderno. La rappresentazione forse più efficace di questo esistere secondo sistemi di pseudovalori resisi indipendenti e assunti con nostalgico sentimentalismo è offerta dalla trilogia "I sonnambuli "("1888 Pasenow o il romanticismo", 1903 "Esch o l'anarchia", "1918 Huguenau o il realismo"), composta fra il 1929 e il 1932, edita per la prima volta in italiano nel 1960 e risultata introvabile per lungo tempo. Vi vengono disegnate tre possibili tipologie o stazioni conoscitive aperte sull'autodistruzione culturale, sul "male" moderno, e insieme tre ipotesi interpretative per far uscire dall'onnubilamento del sonnambulismo, rappresentato da un'emblematica gamma di personaggi prigionieri di falsi sistemi ideologici e, in pari tempo, sorretti da un'irriducibile tensione metafisica. Broch diagnostica dunque una compagine culturale e politica, quella austrotedesca, che sta rovinosamente affondando nel caos, un mondo che - secondo una simbologia teologico-religiosa - sta evolvendosi verso l'Anticristo.
Tre i pannelli di questa "descensus ad inferos" che intende abbracciare altrettante generazioni di tedeschi (1888, 1903 e 1918), dall'ascesa al trono di Guglielmo II alla fine della prima guerra mondiale, ovvero al tracollo della società guglielmina e insieme dell'impero austroungarico." "Il primo, dedicato alle delizie e ossessioni dell'alta borghesia e dell'aristocrazia, ha al centro il signore von Pasenow, vecchio Junker prussiano tutto devoto all'uniforme (corazza-argine alla disgregazione) che però ha perduto ogni "centro" e ogni sistema di valore e, assente come un sonnambolo, incede a scatti regolari verso il nulla, e il suo romantico figlio Joachim, ufficiale lui pure, le vite dei quali si svolgono all'insegna della pura convenzione militare, che ha preso il sopravvento sullo spirito religioso. Il secondo, dedicato alla piccola borghesia impiegatizia e artigiana, ha al centro il contabile Esch, in cerca di un impossibile "ordine" nell'"anarchia" di un presente abitato solo da deprecabili ingegneri e demagoghi. Il terzo, dedicato all'avanzare di una nuova spavalda borghesia, ne rappresenta la spietatezza nell'alsaziano Huguenau, l'uomo del "realismo", un disertore e affarista senza scrupoli, disancorato interamente ormai da qualsiasi valore, assurto a prototipo dell'epoca attuale, nel suo agire strettamente e sconsideratamente finalistico, sonnambulo lui pure in procinto di affondare nel caos e nel regno del male, in un contesto in cui ricompaiono l'ufficiale Joachim von Pasenow e l'ex contabile Esch.
L'impressione è che l'abisso raggiunto dall'umanità sia stato diagnosticato da Broch con la medesima spietatezza con cui non ha esitato a definire la sua stessa Vienna una "città della decorazione per eccellenza più che dell'arte", presentandola come il laboratorio del vuoto e lo scenario del dissolversi dei significati. Nella trilogia la diagnosi ha richiesto la chiamata a raccolta di ogni possibile strumento tecnico-stilistico e la commistione dei generi, inserendo spezzoni saggistici, excursus storico-filosofici, storie parallele, momenti lirici, per attuare una narrazione multidimensionale che, a metà fra realismo fontaniano e simbolismo, forzasse i confini tradizionali del romanzo e al tempo stesso risultasse adeguata a simboleggiare - oltre che la crisi del romanzo stesso - anche quella perdita del grande stile e comunque di uno stile unitario che caratterizza l'uomo contemporaneo.
Il risultato è certamente grandioso, anche se a volte - come osserva finemente Luigi Forte - in certe scene dominate dall'impennata mistica e dalla dimensione simbolica (certi baci smisurati come quelli tra Joachim e Ruzena) il linguaggio dei "Sonnambuli" finisce per produrre effetti imprevedibilmente umoristici e forse grotteschi, nei quali lo smascheratore del kitsch finisce per divenirne vittima in prima persona.
La dovizia degli strati narrativi della trilogia e soprattutto l'aver concluso il terzo volume (che è anche quello in cui l'apocalissi fa più sentire la sua voce) all'insegna della speranza messianica e del procedere verso la salvezza (destinata a nascere proprio dalle rovine del mondo inabissatosi con la guerra) non hanno ovviamente mancato di sconcertare più di un critico letterario, e si è anche rimproverato a Broch di nutrire sogni tardo-romantici, preindustriali, sul genere di quelli coltivati - in ben altro contesto - ad esempio dal Novalis del saggio "Christenheit oder Europa". Giova però subito precisare che Broch si poneva alla ricerca di una dimensione etica che superasse lo spirito del reazionario progetto cristiano-romantico e che comunque restasse ben lungi dal voler alimentare nostalgie ingenue.
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