Indice
Le prime righe del romanzo
Ricorderò sempre quel che è accaduto. Davanti a un televisore acceso. La paura che si insinua nei tuoi occhi. È stato un attimo, un battito d’ali, ho riconosciuto un tremore che prima non c’era.
Fino a quel momento avevo avuto la prontezza di cambiare canale ogni volta che la violenza di una scena irrompeva dallo schermo.
– Sono cose da grandi, – ti dicevo, quando tu, vispo e curioso, mi chiedevi di tornare indietro. Sembravi guidato da un istinto ingordo e avevi il distacco dello scienziato. Il mondo è per te un luogo da scoprire. Non provi ribrezzo quando prendi in mano uno scarafaggio e giochi con le sue zampette che si agitano nell’aria, non hai paura che ti punga o che possa nascondere un veleno letale.
Ma quel giorno l’insetto che avevamo davanti era l’immagine di un camion bianco che si getta sulla folla investendo adulti e bambini. Era la voce del giornalista che descriveva l’orrore di chi ha visto un padre o un figlio morire, su una strada, la Promenade des Anglais di Nizza, che fino a quel momento tu non avevi mai sentito nominare. Eppure era vicina. Tra le immagini del disastro c’era un passeggino identico al tuo. Una scarpa da ginnastica uguale a quella di tua cugina, ma insanguinata. Un peluche non tanto diverso da Bibi, l’orsetto che dorme con te da quando sei nato.
Ero troppo sconvolta per cambiare canale. Non mi sono neanche accorta che eri rimasto seduto lí accanto. La casa dei nonni è sempre un viavai disordinato, ti pensavo fuori, a giocare in giardino. Invece la tua voce acuta ha interrotto il brusio del telegiornale e ha aperto un varco nell’ipnosi collettiva.
Quella volta me lo hai detto tu: – È da grandi –. Avevi un tono supplichevole, lo sguardo liquido, pieno di sconcerto. Eri pallido, sembravi di pietra.
Ed eri tu, non io, a voler cambiare canale. La nonna ti ha preso in braccio. E, mentre ti portava via, i miei occhi continuavano a frugare dentro i tuoi, tentando di decifrare la paura che ti era scivolata dentro, viscida e quatta. Una paura che non avevo mai neppure intravisto sul tuo volto e che adesso invece, con le sue zampette sottili, in un lampo si era spinta fino in fondo. Tu nascondevi il viso nei capelli della nonna mentre la paura se ne stava già rintanata da qualche parte dentro di te, a deporre le sue temibili uova.
Sin da che ti portavo in grembo mi sono misurata con l’urgenza di proteggerti. E ancora oggi, con l’insensatezza dell’istinto materno, vorrei poter dire che non è successo nulla. Ma cosí non è. Ho visto il modo in cui, la sera, stringevi Bibi prima di addormentarti. Ho letto il riflesso della paura nell’incubo che ti ha svegliato la notte, e in tutte le volte che da allora mi hai chiesto: – Mamma, dove vai? – preoccupato che potessi scomparire da un momento all’altro.
Li sentivi chiacchierare, i bambini piú grandi. Appollaiati sopra i letti a castello di legno, in montagna, figli di amici che tiravano tardi la sera e davanti a te parlavano dell’Isis come di un’entità simile all’uomo nero, come se i suoi seguaci non fossero, in alcuni casi, anche loro ragazzi dalla faccia pulita e l’aria da studiosi insospettabili. Temevano che quest’uomo nero potesse arrivare in qualunque istante e in qualunque luogo. Eravamo tutti in guerra, dicevano, nessuno escluso. Uno di loro ha detto alla sua mamma: – Voglio imparare l’arabo. Cosí, se arrivano i cattivi dell’Isis, io faccio finta di essere musulmano.
Che cosa avrai capito tu di quella richiesta, del baratto di identità che sottintendeva? Hai solo quattro anni, non puoi capire.
Ecco il perché di queste parole, amore mio. Le sto scrivendo anche per raccontarti quello che so sulla paura. Nell’illusione di offrirti quasi un manuale di sopravvivenza.
Le affronto per la prima volta, le mie paure, e mi chiedo se non siano le stesse che albergano nei cuori delle altre madri. Penso a loro, e rivedo il viso della mia. Le sue mani strette sulla vestaglia rossa, mentre sbircia fuori dalla finestra e socchiude lo sguardo scrutando il cielo nelle notti piene di musica da ballare, quella musica che mi faceva perdere la cognizione del tempo. Ricorderò sempre quel che è accaduto. Davanti a un televisore acceso. La paura che si insinua nei tuoi occhi. È stato un attimo, un battito d’ali, ho riconosciuto un tremore che prima non c’era.
Fino a quel momento avevo avuto la prontezza di cambiare canale ogni volta che la violenza di una scena irrompeva dallo schermo.
– Sono cose da grandi, – ti dicevo, quando tu, vispo e curioso, mi chiedevi di tornare indietro. Sembravi guidato da un istinto ingordo e avevi il distacco dello scienziato. Il mondo è per te un luogo da scoprire. Non provi ribrezzo quando prendi in mano uno scarafaggio e giochi con le sue zampette che si agitano nell’aria, non hai paura che ti punga o che possa nascondere un veleno letale.
Ma quel giorno l’insetto che avevamo davanti era l’immagine di un camion bianco che si getta sulla folla investendo adulti e bambini. Era la voce del giornalista che descriveva l’orrore di chi ha visto un padre o un figlio morire, su una strada, la Promenade des Anglais di Nizza, che fino a quel momento tu non avevi mai sentito nominare. Eppure era vicina. Tra le immagini del disastro c’era un passeggino identico al tuo. Una scarpa da ginnastica uguale a quella di tua cugina, ma insanguinata. Un peluche non tanto diverso da Bibi, l’orsetto che dorme con te da quando sei nato.
Ero troppo sconvolta per cambiare canale. Non mi sono neanche accorta che eri rimasto seduto lí accanto. La casa dei nonni è sempre un viavai disordinato, ti pensavo fuori, a giocare in giardino. Invece la tua voce acuta ha interrotto il brusio del telegiornale e ha aperto un varco nell’ipnosi collettiva.
Quella volta me lo hai detto tu: – È da grandi –. Avevi un tono supplichevole, lo sguardo liquido, pieno di sconcerto. Eri pallido, sembravi di pietra.
Ed eri tu, non io, a voler cambiare canale.
La nonna ti ha preso in braccio. E, mentre ti portava via, i miei occhi continuavano a frugare dentro i tuoi, tentando di decifrare la paura che ti era scivolata dentro, viscida e quatta. Una paura che non avevo mai neppure intravisto sul tuo volto e che adesso invece, con le sue zampette sottili, in un lampo si era spinta fino in fondo. Tu nascondevi il viso nei capelli della nonna mentre la paura se ne stava già rintanata da qualche parte dentro di te, a deporre le sue temibili uova.
Sin da che ti portavo in grembo mi sono misurata con l’urgenza di proteggerti. E ancora oggi, con l’insensatezza dell’istinto materno, vorrei poter dire che non è successo nulla. Ma cosí non è. Ho visto il modo in cui, la sera, stringevi Bibi prima di addormentarti. Ho letto il riflesso della paura nell’incubo che ti ha svegliato la notte, e in tutte le volte che da allora mi hai chiesto: – Mamma, dove vai? – preoccupato che potessi scomparire da un momento all’altro.
Li sentivi chiacchierare, i bambini piú grandi. Appollaiati sopra i letti a castello di legno, in montagna, figli di amici che tiravano tardi la sera e davanti a te parlavano dell’Isis come di un’entità simile all’uomo nero, come se i suoi seguaci non fossero, in alcuni casi, anche loro ragazzi dalla faccia pulita e l’aria da studiosi insospettabili. Temevano che quest’uomo nero potesse arrivare in qualunque istante e in qualunque luogo. Eravamo tutti in guerra, dicevano, nessuno escluso. Uno di loro ha detto alla sua mamma: – Voglio imparare l’arabo. Cosí, se arrivano i cattivi dell’Isis, io faccio finta di essere musulmano.
Che cosa avrai capito tu di quella richiesta, del baratto di identità che sottintendeva? Hai solo quattro anni, non puoi capire.
Ecco il perché di queste parole, amore mio. Le sto scrivendo anche per raccontarti quello che so sulla paura. Nell’illusione di offrirti quasi un manuale di sopravvivenza.
Le affronto per la prima volta, le mie paure, e mi chiedo se non siano le stesse che albergano nei cuori delle altre madri. Penso a loro, e rivedo il viso della mia. Le sue mani strette sulla vestaglia rossa, mentre sbircia fuori dalla finestra e socchiude lo sguardo scrutando il cielo nelle notti piene di musica da ballare, quella musica che mi faceva perdere la cognizione del tempo.
La rivedo mentre mi aspetta sveglia, anche fino all’alba. E mi sembra di sentire mio padre che dal letto le dice: – Memi, dài, vieni a dormire.
Vado ancora piú indietro e penso alla tua bisnonna, Diego. Immagino le sue giornate in tempo di guerra. La sua faccia mesta quando divide il cibo per le figlie sul ripiano della credenza, allunga il latte con l’acqua, raccoglie le briciole di pane dal tavolo e se le infila in bocca, per mettere a tacere lo stomaco che brontola.
Penso ad altre madri come lei. Le vedo sobbalzare al suono delle sirene, scendere di corsa le scale dei rifugi antiaerei con i bambini in braccio. Mi sembra di sentire i boati delle bombe. È una paura che non conosco da vicino, ma presumo che quella paura svanisse quando le radio annunciavano la fine della guerra. Le nostre radio forse non lo faranno mai. Per questo abbiamo smesso di chiedercelo, se e quando tornerà davvero e per chiunque la pace.