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Un libro fatto di sottrazioni: la prosa asciutta quasi asettica, come la culla di plastica in cui lotta per sopravvivere Irene, la piccola prematura. Poche emozioni, poco pathos, ma un dolore sordo verso un'esistenza avara e faticosa. Maria insegna ad una scuola serale e sono i suoi allievi, di pochi mezzi e ancor meno speranze, ad essere i personaggi più ricchi e vitali. Reale
Il libro è molto bello ed è inutile sprecare parole, come la stessa Parrella evita di fare. Infatti è grande il merito di evitare fiumi di descrizioni intime che basta semplicemente lasciare intuire. Bravissima.
La trama mi ha convinto a comprare il libro e a leggerlo, ma purtroppo non mi ha emozionato come speravo e come spesso accade quando si leggono storie intime e tutte al femminile. L'autrice senza dubbio ha una buona preparazione conoscitiva, ma pensavo che la storia fosse molto più introspettiva, psicoanalitica nel narrare i sentimenti di Maria in quei lunghi e interminabili giorni;invece si parla più del contesto, delle persone e dei fatti che circondano la vita della protagonista, i dialoghi interni risultano scarsi nel narrare un dolore così intimo.
Recensioni
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"Io leggevo": Maria ha superato la soglia dei quaranta, insegna italiano in una scuola territoriale serale, è sola. A causa di complicazioni non specificate "a quarant'anni non si fanno i figli" nasce Irene, a soli sei mesi di gestazione. E Maria, incrollabile nelle sue certezze elaborate in anni di formazione dura, periferica, anni da scuola di partito stretti da un padre rigorosamente comunista e da un madre cattolica, oppone al dolore, la sua strategia consueta. Leggere, ovvero isolarsi impedire al mondo esterno di sfondare il proprio nocciolo d'identità, chiamare a sé le forze della ragione, rifugiarsi, come Montaigne, nel regno pacificato dei propri studi. Un saggio sul laicismo, non a caso, perché "non sento curiosità nel dubbio, né fascino nella speranza". Ma per quanto Maria sia strutturata, Irene è la buca nella quale inciampa, un essere che non è figlia maturata, "una forma senza immagine, un atto vivente che dietro di sé non aveva nessuna idea platonica a sorreggerlo" che non può, per sua intrinseca essenza, conferirle lo statuto di madre. Nonostante, dunque, la totale mancanza di categorie di pensiero attraverso le quali sistemare la nascita di Irene, Maria è costretta a imparare un nuovo alfabeto, a ricominciare, in qualche modo, da zero. Da quella incubatrice bianca / scatola bianca / spazio bianco che, suo malgrado, trasmette un irresistibile seduzione, sia essa verso la vita o verso la morte.
Il romanzo di Valeria Parrella è la cronaca dello spazio e del tempo in cui Irene, e sua madre, artificialmente arrivano al punto di partenza di una nascita "naturale". Con loro, i medici, le infermiere, le altre madri, i padri, gli amici rimasti, i colleghi, gli allievi, e i ricordi. Intorno a loro, oltre all'ospedale (ai suoi cornicioni, alle anticamere, alle sale d'attesa, al reparto neonatale per prematuri con tutte le sue, a tratti quasi macabre, contraddizioni), la casa di Maria ben protetta da un portone antipanico, l'aula di scuola, e alcune, poche, vie di Napoli dove la protagonista s'immerge come bendata, in quella sorta di alternanza tra sonno e veglia che sono i giorni della cosiddetta rinascita di Irene. Che arriva, in effetti: prima con l'autonomia respiratoria poi con l'allattamento con il biberon (davvero efficaci le pagine che descrivono i primi approcci di Maria con il biberon e le difficoltà della bambina a ingerire il latte, con quel continuo chiedersi il perché un atto naturale possa trasformarsi in un motivo di preoccupazione, d'angoscia o anche di perdita definitiva) e infine con la dimissione di Irene.
Della "vecchia" Parrella, di quella dei racconti modellati su un parlato ricco e controllato, qui rimane soprattutto la volontà di non cedere alla paura di non saper raccontare. In questo caso, l'affondo nel sé, nel proprio dolore biografico, è condotto con sapienza e il giusto distacco. Dispiacciono un poco i sipari sul quotidiano, i mo' insistiti delle madri popolane, e la storia d'amore con il dottorino. Difetti lievi rispetto a un lavoro che, in Italia, trova forse una parentela letteraria con il racconto di Lalla Romano Ho sognato l'ospedale (Il melangolo, 1995), dove la necessità primaria della disciplina ospedaliera confligge con l'involontario umorismo che nasce dalla sua applicazione. Camilla Valletti
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