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Le spleen de Paris-Lo spleen di Parigi - Charles Baudelaire - copertina
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1990
1 gennaio 1990
192 p.
9788842505402

Voce della critica

BAUDELAIRE, CHARLES, Lo spleen di Parigi

BAUDELAIRE, CHARLES, Lo spleen di Parigi
recensione di Cacciavillani, G., L'Indice 1990, n. 5

Pochi (e fra questi porrei Jouve, eccelso Baudelaire del Novecento francese, e Artaud) sono giunti ad una comprensione così profonda della poesia baudelairiana come Yves Bonnefoy, che vi ha consacrato almeno quattro interventi: tre contenuti nei saggi dell'"Improbabile" (1959; nuova ed. Gallimard, 1980) e uno raccolto nel "Nuage rouge" (1977). Egli afferma che "Baudelaire ha inventato la morte". L'esperienza della morte, dentro la vita, si riferisce alla separazione, alla perdita, al lutto: Baudelaire ha nominato "ciò che si perde", e con quest'atto - che testimonia di una crisi "pura e violenta, affettiva e di pensiero" - egli ha avuto accesso alla "verità di parola". Baudelaire ha portato il discorso poetico "nel cuore del paese sensibile, fuori dalla coscienza, fuori di sé", ancorandolo all'orizzonte della finitudine e della fuggitività dell'esistenza. La poesia di Baudelaire si può dunque definire come "l'incontro del corpo ferito e del linguaggio immortale": "il corpo, il luogo, il volto. Riportati a proporzioni stellari e conosciuti come mortali, essi costituiscono nelle "Fleurs du Mal" il nuovo orizzonte e la salvezza del discorso".
Effettivamente, l'universo espressivo baudelairiano è sin dall'inizio abitato dall'esperienza angosciante, dalla fobia dell'emorragia (effusione, " vaporizzazione", spezzettamento, separazione catastrofica): il problema che gli si pone immediatamente è quello di riportare entro una matrice contenente (una 'mater-matrix') le 'disjecta membra' del corpo ferito (separato, scisso), onde rielaborarlo - "alchimisticamente" -, restaurarlo, ricostruirlo. Si tratta dunque di passare da un'esperienza arcaica di oggetti parziali ad una ricostituzione dell'oggetto intero: il luogo di questa "operazione magica" è il testo poetico, il quale è allora eminentemente una struttura "religiosa", nel senso che restituisce quei legami, ricollega quelle disparate od opposte correnti d'affetto e di pensiero che nella parola poetica troveranno una drammatica ma eroica unità.
Non solo attraverso la metafora, la comparazione, l'ossimoro (tutte forme di equivalenza simbolica, espressioni onnipresenti di quell'"universale analogia" del mondo originariamente proferito come "uno") Baudelaire recupera la struttura trinitaria del pensiero (una cosa - un'altra cosa - una relazione fra le due: come spiega Matte Blanco), ma anche attraverso l'esplorazione e la conoscenza "euritmica" del mondo interno e del mondo esterno. La dimensione estetica, quand'anche preveda roventi punti di fuga (la "bruciante esperienza" della simbiosi con la madre), è per Baudelaire innanzitutto un ritrovamento simbolico della figura del padre sotto forma di "maestà". "Maestà sostanziale", "regolarità e simmetria", "architettura verbale", "plasticità della lingua", "armatura", "tempio"... Baudelaire inventa la quadridimensionalità del discorso poetico: egli "lega" il fantasma e l'affetto inconsci vigenti nel teatro della mente, e produce un mondo attraverso la sovranità dell'immaginazione. Per questo, egli dice che il ritmo contiene l'emozione profonda, che il tempio verbale garantisce "la vita misteriosa dell'opera" e che "le retoriche, le prosodie sono regole reclamate dall'organizzazione stessa dell'essere spirituale". Egli insisterà sempre non solo sulla "visività" della poesia, come riflesso ("religioso") del mondo interno, dell'"altra scena", ma sulla "plasticità", sul "volume", insomma sulla "maestà" del corpo testuale: la poesia, come la scultura, deve "rendere tutto solenne, anche il movimento" - nella laica, moderna ritualità di un sacro interiore.
Vivente Baudelaire, mi pare che soprattutto un suo ardente ammiratore, anch'egli poeta, abbia visto fino in fondo la portata dell'operazione estetica del Maestro. Si tratta del romeno Ange Pechméja, che nel 1866, in una lunga lettera, così scrive fra l'altro: "Serrato in una forma preziosa, come il fiore nella sua stretta guaina, il senso dei vostri versi fa esplodere, nella mente del lettore, la serie di associazioni che la loro formula concisa conteneva in potenza. A mia conoscenza, è questa una caratteristica che non si trova in nessun altro poeta. Nella maggior parte dei poeti, infatti, il pensiero, invece di sottendere vigorosamente la forma, la lascia spesso floscia; nel vostro caso, esso fa scoppiare l'involucro". E in realtà, nei suoi vertici di sovradeterminazione, il problema dell'emorragia si ripresenta: la compressione emozionale della scena significante "fora" il tessuto verbale, proponendo un contatto di "fuoco" con il corpo della madre.
Passando dalla "bellezza pitagorica" delle "Fleurs" (l'espressione è dello stesso Baudelaire) alla dispersione molecolare dello "Spleen de Paris", si deve fare l'esperienza di un mutamento radicale: dall'"essere euritmico" ed eroicamente unitario (legame di corpo ferito e di linguaggio immortale, appunto) all'essere dissonante e asimmetrico, franto e frammentato. Sin dalla lettura dedicatoria a Houssaye, Baudelaire è perfettamente consapevole di avviarsi verso territori di sperimentazione in cui, a livello macro e micro-testuale, domina la rottura: il poemetto in prosa, in sé, strutturalmente, "non ha né testa né coda, poiché esso è ad un tempo tutto testa e tutto coda". Baudelaire parla dunque di una creazione "senza vertebre" o dalle vertebre "spezzate", di "tronconi" e di "tagli" che vanno senz'altro riferiti alla rinuncia alla funzione simbolica vertebrante della figura del padre.
Come ha ben visto la critica più recente, nello "Spleen de Paris" Baudelaire procede ad una vera e propria rivoluzione espressiva: una "sfigurazione" del linguaggio poetico (Barbara Johnson "Défiguration du langage poétique", Flammarion, Paris 1979), un passaggio da un regime ricco di figure ad un regime povero o comunque diverso ("trans-figurazione", secondo Genette), una decostruzione della metafora, uno sfregio alla propria identità (che si era "salvata" nel dramma di una intima liturgia: l'introiezione della figura della madre contenente e del padre strutturante). Qualcuno, come l'attento Rincé, parla di una "elezione della discontinuità come principio strutturante-destrutturante del testo" ad ogni suo livello. Ma non si può nascondere che il passaggio da un insieme finito e magistralmente strutturato ad una "nebulosa aperta e indefinita" comporta bensì una rifondazione del discorso poetico che entra con forza negli stridori e nelle velocità del moderno, ma implica anche sperimentazione maldestra, spesso frustrante e abortita.
È stato anche osservato che, generalmente, l'esistenza di una poesia delle "Fleurs" paralizza Baudelaire nel suo tentativo di trasposizione in prosa: inutile dunque cercare le novità su questo piano, come è inutile cercare misure ritmiche e prosodiche nello sperimentalismo del poemetto in prosa. La vera novità è altrove: nella "emergenza sotterranea di figure e fantasmi che fondano la "stranezza" dei testi dello "Spleen de Paris"" (Dominique Rincé, º"Baudelaire et la modernité poétique", P.U.F., Paris 1984). Per altro, già Benjamin aveva richiamato l'attenzione sull'importanza dello choc quale principio poetico percettivo della modernità. Recentemente Marshall Berman (nello splendido studio sull'"Esperienza della modernità" (1982) tradotto in Italia dal Mulino (nel 1985) ha tracciato il quadro antropologico entro il quale si è mosso l'ultimo Baudelaire: "Quest'atmosfera - di agitazione e di disordine, di ebbrezza e di stordimento psichico, di ampliamento delle possibilità di esperienza e di distruzione dei limiti morali e dei legami personali, di autoespansione e di autoalienazione, di fantasmi che occupano le strade e gli animi - è l'atmosfera in cui è nata la sensibilità moderna". Nei poemetti in prosa si rifletterebbe, "de-poeticizzata", la trama di uno choc diffratto, presente a più livelli testuali, per insorgenza di quelle che Berman chiama "le scene moderne originarie",- esperienze che scaturiscono dalla frequentazione delle "città enormi", ricche di una risonanza mitica tale da poter essere trasformate in situazioni archetipali della vita moderna. Tutto ciò che una città contiene di viventi mostruosità, di tesori spaventosi, grotteschi o meravigliosamente strani, si precipita nel testo: il poeta perde la sua aureola nel fango del 'macadam', "l'enorme capitale infame" gl'impone di "sposare la folla", di intensificare l'attenzione e la percezione, di destreggiarsi in torsioni e rapidi movimenti,- "soubresauts" e "mouvements brusques",- riferiti non solo alla fenomenologia del corpo ma soprattutto a quella della mente e della eccitata sensibilità. In tal senso, è vero (come dice Berardinelli) che la scrittura dei poemetti in prosa implica l'esigenza di una maggiore esposizione della funzione della coscienza: "esercizio della volontà e dell'attenzione prolungata". L'immagine ossessiva delle finestre - come osservano D. Scott e B. Wright -, le quali s'aprono ognuna su prospettive, su "scene" diverse, simbolizza benissimo la complessità della nuova percezione esterna-interna di Baudelaire. Ma incontrando ancora una volta la morte (nel capolavoro assoluto che è "Una morte eroica"), Baudelaire non l'assume più entro il cerchio bruciante dell'esperienza poetica: la nega, piuttosto, le oppone la maniacale ebbrezza dell'arte, come superstite scudo difensivo: "In modo perentorio, irrefutabile, Fancioulle mi dava la prova che l'ebbrezza dell'Arte è più adatta di ogni altra a velare i terrori dell'abisso; che il genio può recitare la commedia sull'orlo della tomba con una gioia che gli impedisce di vedere la tomba, perduto com'è in un paradiso che esclude ogni idea di tomba e di distruzione".

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Charles Baudelaire

1821, Parigi

Charles Baudelaire è stato un poeta francese. Nacque da Caroline Archimbaut-Dufays e da Joseph-François B., capo degli uffici amministrativi del senato. Rimasta vedova nel 1827, la madre si risposò col tenente colonnello (poi generale) Jacques Aupick. Questo secondo matrimonio provocò in Baudelaire un trauma e un senso di carenza affettiva dei quali porterà le conseguenze per tutta la vita. Nel 1832, trasferito a Lione, Aupick iscrisse il figliastro come interno al Collegio reale della città. Quattro anni dopo, assegnato allo stato maggiore, Aupick tornò a Parigi con la famiglia e Charles entrò nel liceo Louis-le-Grand, dove superò, nel 1839, gli esami di baccalaureato. Nel 1840 strinse amicizia con i poeti Le Vavasseur e Prarond...

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