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Una notte al Museo dell’Acropoli, completamente sola. O meglio: in compagnia dei marmi del Partenone, e dei propri pensieri. È in questa atmosfera irripetibile che Andrea Marcolongo compie un’autentica alchimia. Intrecciando il racconto di Atene, dell’Acropoli e dei tanti furti che ha subito, con la memoria intima più dolorosa, Marcolongo ci ricorda che dalla Grecia abbiamo sempre preso senza mai restituire. E che siamo tutti in debito con qualcuno a cui dovremmo solo dire grazie – prima che sia troppo tardi.
«Perché la questione non è tanto proteggere il passato – è come salvare dal futuro il momento presente».
L’ultima settimana di maggio, in un negozio di Parigi specializzato in articoli da montagna, Andrea Marcolongo ha comprato un letto da campo, un sacco a pelo e una torcia. La sera successiva ha aperto il letto da campo e steso il sacco a pelo non in cima alla vetta di una montagna, ma nella sala deserta di uno dei più importanti musei del mondo. La luce della torcia si è allora mescolata a quella della luna correndo sui marmi della sala, scolpiti da Fidia nel secolo glorioso di Pericle, sulle presenze e soprattutto sulle assenze. Siamo ad Atene, al Museo dell’Acropoli, dove Marcolongo ha l’occasione di trascorrere una notte in completa solitudine. Ma è difficile essere davvero soli quando si è circondati dai marmi del Partenone e dai propri pensieri. La notte è il tempo dei fantasmi e di bilanci. Due sono le ombre che vengono a visitare i pensieri di Marcolongo. Quella di Lord Elgin: l’ambasciatore inglese che perpetrò il furto dei marmi del Partenone all’inizio dell’Ottocento deportandoli a Londra chiusi dentro casse di legno. E quella di un uomo scomparso da poco, nato in un umile paese della provincia veneta che si dichiara il centro del mondo: il padre di Andrea. La storia di Elgin è imprevedibile e tragica come un romanzo d’avventure. Elgin, che all’inizio nemmeno sospettava cosa rappresentassero il Partenone e l’Acropoli, vedrà la sua vita distrutta per le conseguenze di quel gesto arrogante e folle, per sempre colpito dalla «maledizione di Minerva»: «Chissà se le rovine che contemplava in silenzio erano quelle di Atene o della sua vita. Chissà se pensò almeno una volta che ne era valsa comunque la pena». Ma i vuoti delle sale del museo, gli spazi bianchi di gesso lasciati dai marmi trafugati due secoli fa, risuonano con i vuoti di cui siamo composti: con il rimpianto e la vergogna, quella di capire solo ora il filo che ci legava a un genitore che sentivamo distante e da cui volevamo emanciparci; con la fragilità e l’inadeguatezza, quella di non sentirsi mai all’altezza di ciò che si è ottenuto, di sentirsi sempre un impostore, un ladro; con furti materiali e appropriazioni culturali, quelle che facciamo ai danni del mondo classico: «L’eternità non è fatta di marmo come l’opera di Fidia, rifletto, bensì è contenuta in ciascuno degli istanti che passano: è sufficiente distrarsi un momento, smettere di custodirla, e per sempre sarà perduta». In questo libro intenso e coraggioso, Andrea Marcolongo ci ricorda che siamo tutti in debito con qualcuno per ciò che siamo. Che abbiamo tutti qualcuno a cui dire: grazie.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Se l’autrice temeva di macchiarsi di hybris, beh c’è da dire che invece c’è riuscita in pieno. Quasi tutto in questo libro è fastidioso, ma mi limiterò alle cose più irritanti: noi la Grecia non l’abbiamo depredata dei suoi valori, come ripete insistentemente, ma li abbiamo recepiti e arricchiti nel corso dei secoli, c’è qualche avvisaglia culturale in Europa anche dopo Pericle – magari un libro di storia dell’arte aiuterebbe -, ma lei non sembra essersene accorta, ancora la trita e ritrita fandonia di Roma come supina plagiaria dell’Ellade, il comportamento isterico di lei che salta nei corridoi, sacri per noi tutti, del museo come una baccante, ma senza il fascino di quelle euripidee, l’atteggiamento verso l’Italia, patria ostentatamente rinnegata al punto di sentirsi in colpa perché l’unica copia del documento che consentiva a lord Elgin di depredare l’acropoli è scritta nella nostra lingua, l’atteggiamento altezzoso nei confronti del padre che non aveva potuto studiare di cui poi confessa fortunatamente di pentirsi (almeno questo gesto di vera umiltà, l’unico però), il tutto di una noia mortale di cui non credo che gli dei si siano affatto compiaciuti. L’unica cosa interessante è il racconto delle imprese di lord Elgin, ma, come ha detto qui un altro lettore, si potevano leggere anche in altri testi. E poi quell’idea da boy scout iniziale di comprare una brandina da campo a Parigi per trascorrere la notte nel museo: ma non sarebbe stato più economico acquistarla ad Atene senza doversela caricare sull’aereo? Già da questa informazione si doveva capire l’andazzo. Comunque, le auguriamo, come lei auspica, di sostituire il verde della nostra bandiera con il blu gallico e di trascorrere il resto della vita in quel paese. Ceterum censeo, come concludeva ogni suo discorso Catone, che lord Elgin ha commesso una rapina odiosa, ferendo non solo i marmi fidiaci, ma anche l’anima di un popolo meraviglioso come quello greco.
Per chi ci andrà e per chi, soprattutto, è già stato ad Atene.
L'unico tratto interessante in questo libro è la storia di Lord Elgin, che però si può trovare anche altrove. Per il resto, l'autrice risulta davvero antipatica: ripete con falsa modestia di essere un'impostore, poi però dice di essere una persona intensa, usando sempre un tono piagnucoloso e falsamente profondo. Lo stile è una imitazione di quello di Baricco. Detto ciò, sono d'accordo che i marmi del Partenone debbano tornare ad Atene!
Recensioni
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