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Anno edizione: 2021
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«Cosa ci annuncia questo insolito libro?» si chiedeva Italo Calvino nell'atto di pubblicarlo. Era il 1983, e il romanzo d'esordio di Daniele Del Giudice si presentava davvero come un annuncio. Come ogni vero inizio, piú che inseguire tracce, creò nuovi territori. Misterioso e inesauribile, Lo stadio di Wimbledon è il viaggio di un uomo davanti alla scelta di prendere la parola. Seguendo i passi di uno scrittore nevralgico che non scrisse mai nemmeno un libro, e temendo il contagio del suo silenzio, quell'uomo si interroga su come stare al mondo. Forse vorrebbe solo vedere, e sentire, senza fermare nulla in forma di parole, perché «qualunque frase è contro il panorama». Ma per lui non c'è altra conclusione: «Scrivere non è importante, però non si può fare altro».
«Il giovane ha fatto la sua scelta: cercherà di rappresentare le persone e le cose sulla pagina, non perché l'opera conta piú della vita, ma perché solo dedicando tutta la propria attenzione all'oggetto, in un'appassionata relazione col mondo delle cose, potrà definire in negativo il nocciolo irriducibile della soggettività, cioè se stesso» – Italo Calvino
Il navigante segue il faro calcolando continuamente la distanza; è un buon modo, credo, quello di avvicinarsi alle cose misurando sempre quanto se ne è lontani.
Con questo suo esordio cosí luminoso e inclassificabile, nel 1983 Daniele Del Giudice apriva una nuova strada per il romanzo italiano. Lo stadio di Wimbledon è la storia di un incontro impossibile, quello tra chi in queste pagine dice io e un non-scrittore morto da anni, una figura evanescente e inafferrabile, decisiva per la società culturale del suo Paese pur senza aver mai scritto una riga. Il protagonista si mette sulle tracce di quest'uomo irraggiungibile e conosce chi una volta l'aveva amato, calpesta i suoi stessi marciapiedi, si fa largo tra le maglie della memoria nella speranza impossibile di trovare risposte al suo enigma: perché non ha lasciato qualcosa di scritto? Ma in fondo, come suggeriva Calvino nella quarta di copertina, chi sia quest'uomo e da cosa fosse mosso non è poi tanto importante. A contare davvero sono le domande e le inquietudini che attraversano il libro, e la dialettica tra letteratura e vita che va in scena appena sotto la superficie delle frasi. È meglio rappresentare la vita delle persone o agire su di essa? Raccontare o esistere? A contare davvero è la luce di una scrittura senza eguali.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
L’esordio di Del Giudice, a distanza di decenni, conserva la sorpresa e la meraviglia per una scrittura che appare subito singolare, capace di usare il lessico tecnico e scientifico per pagine quasi liriche (quelle ad esempio dedicate alla descrizione di una nave o di un aereo), senza per questo risultare meno incisiva allorché tratteggia tipi umani, riflessioni interiori e sentimenti. Il romanzo è scandito da una serie d incontri che si susseguono tra Trieste e Londra, luoghi che pure assurgono a protagonisti. L’io narrante cerca notizie sulla vita di un intellettuale (Blazen, i cui contorni restano sfumati e misteriosi) cercando risposte alla dicotomia apparente tra vita e scrittura. Lo stadio del celebre torneo di tennis è il luogo di una prima epifania, resa più chiara dal successivo e ultimo colloquio. Non ci sono risposte esaustive, eppure l’autore comprende che scrivere è la sua vocazione, la sola cosa che può fare, un modo per definire il ‘comportamento di fronte alla forma’ che può incidere sulla vita dell’altro (del lettore) quanto le azioni di Blazen, che amava suggerire e indirizzare le scelte della sua cerchia di amici. Un libro dunque che è una dichiarazione di poetica, non sempre agevole nei suoi passaggi, ma pure immaginifico, premessa al successivo e fondamentale ‘Atlante occidentale’.
limiti e pregi di questo romanzo coincidono. una traiettoria a tratti sfuggente, una linea di fuga.
Un giovane aspirante scrittore cerca risposte ai dubbi sulla sua vocazione indagando la vita misteriosa di un letterato che non scrisse, ma volle farsi personaggio nel racconto delle vite altrui. Oggettività e calore, gelo e umanità si fondono e si alternano in questo piccolo curioso mosaico di figure "minori" cui si stenta a riconoscre plausibilità di persone reali. Le scene sembrano svolgersi al rallentatore entro immagini fredde come certi quadri di Edward Hopper, ma all'improvviso la lentezza, la sottile disperazione di fondo, lasciano il posto al calore del ricordo e del rimpianto.
Recensioni
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