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Ottima ricostruzione storica di Esther Benbassa e Aron Rodrigue. Come dice un'antica canzone sefardita: perdemmo Sion, perdemmo Toledo, non c'è consolazione.
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Inquadrare la storia dell'ebraismo sefardita e distinguere al tempo stesso l'evoluzione di ciascuna delle sue componenti accompagnandole per sei secoli: ecco il risultato straordinario di questa ricerca. Essa ha seguito i segmenti di un'identità tanto intricata che la stessa definizione convenzionale invalsa nell'uso è foriera più di equivoci che di chiarezze. Sefarditi secondo un'accezione diffusa sarebbero gli ebrei originari delle terre mussulmane, a fronte degli askenaziti, originari dell'Europa. Dicotomia improponibile, secondo gli autori. Sefarditi designa più propriamente gli ebrei originari della penisola iberica, da non confondersi peraltro con gli ebrei del Nordafrica, che in Francia sono essi pure chiamati sefarditi, ma che hanno una storia loro propria. È la comunità spagnola quella che viene qui trattata nella sua tortuosa vicenda, segnata dalla diaspora nel Levante, dopo l'espulsione del 1492, e dall'insediamento tra Balcani e Turchia. A metà del XIX secolo l'ebraismo sefardita, commerciale, culturalmente scaltrito, disposto alle negoziazioni le più diverse con i ceti di potere al fine di smussare le ricorrenti ondate antiebraiche, vantava una comunità di 150.000 abitanti, sudditi dell'ancora integro (tranne la Grecia) impero ottomano. Una fitta rete di rapporti commerciali con l'Occidente, che aveva in Salonicco il suo punto di appoggio, caratterizzava i sefarditi e li poneva in competizione con greci, armeni e francos (ebrei occidentali). Viene così ripercorsa la storia di come alcune migliaia di ebrei, che nel XV secolo erano aragonesi, catalani e castigliani, siano diventati, tra il XVI e il XIX secolo, bulgari, greci, bosniaci, macedoni, turchi, e poi nel Novecento ebrei di Israele, senza che i differenti contesti degli stati-nazione, compreso l'ultimo, annullassero del tutto un'identificazione tradizionale.
Dino Carpanetto
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