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Storia dell'architettura italiana. Il Quattrocento - copertina

Dettagli

1998
1 gennaio 1997
564 p., ill.
9788843548934

Voce della critica


scheda di de Seta, C. L'Indice del 1999, n. 01

Una sintesi dell'architettura del Quattrocento in Italia è una necessità e una sfida: dal tempo di Adolfo Venturi alcuni hanno accettato la sfida soprattutto nel mondo anglosassone, ma con esiti francamente deludenti.

Cos'era l'Italia del XV secolo in merito a questa attività: l'Italia era semenzaio di nazioni con centri assai diversi tra loro che a stento si capivano, tant'è che i dotti preferivano scrivere i loro testi non in volgare ma in latino, a cominciare da Leon Battista Alberti. E nel suo nome soprattutto, nel secondo dopoguerra, si ebbe una svolta radicale negli studi sull'architettura del Rinascimento italiano: fu Rudolf Wittkower con i suoi Principi architettonici nell'età dell'Umanesimo (1949; Einaudi, 1994) a offrire un punto e a capo. Il testo dello storico tedesco prendeva cautamente le distanze dal milieu warburgiano, a cui pure era così intimamente legato l'autore: riproponeva con forza le ragioni matematiche e musicali del nuovo linguaggio architettonico, sottolineava il valore dell'armonia come chiave di volta dell'intera compositio umanistica.

Non dimentico di questa lezione, Francesco Paolo Fiore nella prima pagina del suo saggio introduttivo ad un'opera collettanea, tiene a evidenziare - in sottile antitesi con quella tesi - che "Filarete rappresenta meglio di Leon Battista Alberti, formatosi nelle università piuttosto che nelle botteghe e nei cantieri del primo Quattrocento, continuità e novità dei tempi presso gli artisti". Ma lo stesso Filarete sapeva bene che era il Brunelleschi l'anello di collegamento tra due civiltà che troveranno in Firenze il momento del loro massimo incontro-scontro nel nome della cupola di Santa Maria del Fiore. La decorazione tuttavia, al pari della dispositio delle parti e della firmitas dell'impianto, va assumendo un ruolo che è del tutto alternativo alla languente tradizione tardogotica, e si riallaccia all'Antico, sulle cui rovine si intende edificare la nuova Domus e la nuova Civitas. Avvalendosi, a tal fine, di quella straordinaria scoperta che fu la prospettiva: senza la quale non sarebbe concepibile la misura assoluta e relativa degli ordini architettonici che di fatto ebbero l'effetto di ridicolizzare la tradizione tardogotica che non s'avvaleva di questa nuova chiave di rappresentazione. Difatti solo sul finire del secolo le architetture antiche sono assunte a norma, paradigma e modello della nuova architettura: come suggerisce Fiore, gli architetti in esordio secolo "accettarono e articolarono il 'sistema' razionale e profondamente fiorentino del Brunelleschi": al quale dedica pagine esemplari Arnaldo Bruschi, autore del primo saggio.L'opera si apre con due medaglioni dedicati ai padri fondatori: Brunelleschi appunto e Alberti (Howard Burns), poi s'articola in aree geografiche e città dominanti. Era inevitabile che così fosse, visto che, come riconosce la storiografia più avveduta, l'Italia era scissa tra influenze nordiche e iberiche, tra Centro Europa e Mediterraneo.La forma della penisola
- senza per questo voler cedere
a un desueto determinismo geografico - avrà pur significato qualcosa.

Ma se questo è vero, Firenze può davvero considerarsi il centro irradiatore e assoluto di tutto quel che avviene dalle Alpi alla Sicilia? Una simile prospettiva, che ha largamente dominato per più di un secolo, si è sgretolata nell'ultimo trentennio: già Chastel parlava di molti ateliers d'Italie, e il nuovo orizzonte storiografico e la stessa articolazione geografica scelta da Fiore sta a documentare assai bene questa nuova consapevolezza. Fatto è che se su Firenze e Roma (a cui Christoph Frommel dedica un saggio che è tra più penetranti dell'intero tomo) si sono avuti contributi notevolissimi, per molte aree questo non è avvenuto, e lo si vede fin troppo chiaramente anche in questo volume. Ferrara, Napoli, la Puglia e il Mezzogiorno continentale meritavano ben altra attenzione e mani più esperte. Se dall'Italia si oscura - come si dice in termini televisivi - più della metà della sua superficie e si decapita una Napoli, capitale della cultura mediterranea al tempo di Alfonso e Ferrante d'Aragona, certo che il disegno complessivo appare in parte alterato. A questo proposito, Giovanni Previtali, in un saggio programmatico dedicato a Teodoro d'Errico, si poneva una "Questione meridionale" anche per la storia dell'arte.

Ma ci sono molti motivi per cui compiacersi, e questi insistono sugli interrogativi che molti saggi pongono e che il curatore efficacemente riassume: il rapporto centro-periferia (inteso non nel senso fiorentinocentrico), il rapporto dinamico tra mondo antico, medioevo e umanesimo che ha in Alberti e nel suo trattato soprattutto un nodo essenziale su cui francamente avrei richiesto una più partecipe articolazione concettuale. Avendo dedicato una qualche attenzione al tema mi veniva di pensare che nulla c'è di più inedito dell'edito... È evidente che la selezione degli argomenti impone sacrifici in un'opera collettanea, sicché più che mai viene a proposito ricordare i Rinascimenti di Tafuri, soprattutto per quanto riguarda i grandi interventi urbani. Ma anche va sottolineato che il volume s'impone per la chiarezza con cui escono dal buio alcune figure non di prima grandezza ma con esiti di grande qualità: alcuni restano nel limbo degli anonimi e sono attivi a Milano, a Savona, a Siena, a Perugia, a Napoli, a Vercelli e un po' in tutta l'Italia.

Dopo il catastrofico esordio - con il volume dedicato al secondo Novecento - questo nuovo tomo della Storia dell'architettura italiana ci riconforta.

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