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L'espressione più netta del contrasto fra l'essere tedesco e il sentirsi ebreo è forse contenuta nelle pagine stese da Jakob Wassermann in un libro ingiustamente dimenticato che soltanto l'acribia intellettuale del più autorevole critico letterario della Germania Marcel Reich Ranicky ha saputo far ritornare sugli scaffali delle librerie tedesche e nel dibattito europeo intorno a Deutschtum e Judentum. Merito dell'editore genovese Il Melangolo aver prontamente provveduto a una traduzione italiana esemplarmente compiuta da Palma Severi.
Mein Weg als Deutscher und Jude è un documento autobiografico che il romanziere nato a Fürth in Franconia nel 1873 pubblica nel 1921 in quella Germania proiettata a celebrare l'ascesa di Hitler al potere. Wassermann non descrive l'epigonismo weimariano né la modernità seducente che pervade gli anni venti. Il suo è un melanconico grido nel vuoto – come lo ha definito Gershom Scholem – rimasto inascoltato ma dal quale si percepisce tutta la tragica eco esistenziale dell'ossimoro ebraico-tedesco che trafigge il suo animo e la stessa società del tempo.
Gli anni della formazione le stagioni della povertà il successo percepito senza falsa vanagloria e con scettico raziocinio contrassegnano l'itinerario di un uomo – tedesco ed ebreo – alla ricerca di un'umanità sperduta nel perbenismo borghese perfido e protervo nell'antisemitismo ignorante e bigotto nell'indifferenza sociale astiosa e dissimulata. Perché non vedere umanamente l'essere umano soltanto l'essere umano? – si domanda Wassermann inconsapevole d'essere lui stesso la risposta. Lo scarto fra l'uomo e l'individuo porta a delegittimare l'umanità racchiusa nel soggetto.
Il compito di essere autentici anche per uno scrittore non si restringe all'opera letteraria per entrare in una sfera ben più vasta. Quella dell'autoeducazione e dell'amore dove non c'è posto per infingimenti arrivismi diffidenze. Il bisogno tutt'altro che inespresso di un punto centrale Wassermann non lo cerca come letterato come tedesco o come ebreo. Di fronte all'insidia dell'appartenenza non resta che il coraggio del sentire dentro se stessi. E allora ecco: Ero ebreo tutto qui. Non potevo farci nulla; e non volevo neppure. Ma Wassermann è anche tedesco. Figlio a modo suo del Romanticismo; amico di Thomas Mann; padre di molti romanzi – da Die Juden von Zirndorf fino al Caspar Hauser sulla cui trama Werner Herzog trarrà nel 1974 il film L'enigma di Kaspar Hauser – la sua poetica cerca il gesto e il gioco lasciando aperto il mistero nel rapporto umano. E ciò lo pone oltre il sionismo o la diaspora l'yiddishkeit o l'assimilazione consapevole che incombe la malattia complessiva dei tempi ossia l'atrofia del cuore e l'ipertrofia dell'intelletto.
Wassermann teme i nemici del genere umano i ripudiati da Dio che presto marceranno per le belle città di Germania con il plauso dello Zeitgeist borghese da cui si rigenererà il luogo comune del rifiuto comunque motivato nelle sue segrete o palesi avversioni. Eppure – conclude nella sua introspezione così estrospettiva – Io sono tedesco sono ebreo l'una cosa in modo intenso e completo come l'altra l'una inscindibile dall'altra. E per loro? per gli aguzzini? Anche i loro crimini – conclude Wassermann – saranno vendicati. Morto nel 1934 non avrà il tempo di essere travolto dalla soluzione finale né potrà distinguersi nell'esercizio di un (im)possibile perdono.
Mario Gennari
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