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Anno edizione: 2023
Anno edizione: 1997
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recensione di Terrenato, L., L'Indice 1998, n. 2
Razzismi, migrazioni di massa e conflitti interetnici sono problemi gravi e non facilmente risolvibili della nostra epoca; c'è, sottostante, il problema della sovrappopolazione del globo, anche se non tutti sono disposti a riconoscerlo come tale.
La nostra specie (intesa come uomo anatomicamente moderno) esiste da 150.000 anni circa, l'inizio dell'uso di una lingua per comunicare risale a 40.000 anni fa, la produzione di cibo esiste da 10.000 anni, ma attraverso quali percorsi siamo giunti alla situazione attuale? Come è accaduto che la specie si differenziasse in così tante popolazioni? Che esse occupassero praticamente tutte le terre disponibili e che adottassero una babele di lingue in gran parte incomprensibili tra loro?
Molte discipline si occupano da tempo di questi problemi: la storiografia, l'antropologia, la linguistica. Ultima viene la genetica delle popolazioni umane: è solo a partire dagli anni sessanta che si scopre progressivamente che le popolazioni umane presentano una variabilità genetica di dimensioni assolutamente non previste: per ogni piccolo tratto del nostro materiale genetico esistono forme strutturalmente diverse, e ogni popolazione possiede frequenze proprie di ciascuna delle diverse forme. La distribuzione delle frequenze geniche nelle diverse popolazioni umane diviene un attivo campo di studio e numerosi ricercatori accumulano in pochi anni una quantità enorme di informazioni. Cavalli-Sforza è fin da subito uno dei ricercatori più attivi in questo campo (dopo un glorioso trascorso nella genetica dei microrganismi), impegnato nell'affrontare il problema di come descrivere complessivamente tale variabilità e poi di come utilizzarla per tentare di ricostruire la storia della nostra specie. Ha inizio così negli anni settanta un progetto che vede ora la pubblicazione di un risultato che, anche se non definitivo, può essere considerato una tappa fondamentale. La genetica delle popolazioni umane è così in grado di offrire alle altre discipline non solo una geografia dei geni posseduti attualmente dalle varie popolazioni umane, ma anche una storia che ricostruisce in dettaglio come si sia giunti allo stato attuale.
Adelphi traduce ora il libro di Cavalli-Sforza, Menozzi e Piazza "Storia e geografia dei geni umani", uscito nella versione inglese nel 1994. È opportuno segnalare che lo stesso editore nel 1996 ha pubblicato la versione italiana di "Geni, popoli e lingue," una versione assai condensata del presente libro, tratta da lezioni tenute da Cavalli-Sforza al Collège de France. La scienza trattata è quella "dura", come si usa dire, e chi vuole effettivamente rendersi conto di quale può essere il contributo della genetica deve dedicarsi a uno studio impegnativo, se non è già specialista del settore; ma il testo fornisce tutte le informazioni che sono necessarie a una comprensione non approssimativa e superficiale di un problema tanto complesso. Il secondo testo citato potrà invece soddisfare la curiosità di chi lo sforzo arduo non può o non vuole farlo.
In una prima parte del libro si parte dalle mappe mondiali della frequenza di 120 geni in 42 popolazioni, e si procede a una complessa analisi statistica che valuta il grado di somiglianza tra le popolazioni ed è quindi in grado di ricostruire veri e propri alberi genealogici che indicano le principali ramificazioni che danno origine alla diversificazione della nostra specie. Essa è il risultato di due fenomeni principali: da un lato la necessità di procurarsi cibo è il motore fondamentale di un continuo processo migratorio che a partire dall'Africa occupa progressivamente tutti i continenti, dall'altro l'isolamento genetico tra i diversi gruppi consente la loro progressiva diversificazione genetica. Si possono così identificare quattro gruppi umani principali: africani, caucasoidi, orientali e indiani americani, aborigeni australiani. Va detto tra l'altro che questi raggruppamenti non hanno nulla a che fare con il pernicioso concetto di razza: il testo sgombera definitivamente il campo da questo equivoco. La variabilità genetica che esiste tra gli individui che compongono una popolazione è significativamente maggiore di quella esistente tra le diverse popolazioni, escludendo quindi la possibilità che un individuo, sulla base dei geni posseduti, possa essere assegnato univocamente a una popolazione. I caratteri che sono serviti all'identificazione delle razze (bianchi, gialli e neri, per intenderci) sono alcuni aspetti della superficie del nostro corpo (il colore della pelle soprattutto) che sono il risultato non delle linee di ascendenza ma degli effetti della selezione climatica, per cui anche gruppi molto diversi geneticamente tra loro (basterà l'esempio di africani e aborigeni australiani) hanno lo stesso colore di pelle perché esposti per migliaia di anni a condizioni di insolazione simili.
La seconda parte del libro è dedicata a un'analisi genetica più dettagliata all'interno di ciascun gruppo principale e soprattutto al confronto e all'integrazione con le altre discipline che a vario titolo si sono occupate della nostra specie. Una miriade di dati antropologici, archeologici e linguistici sono confrontati con quelli genetici e costituiscono forse la parte più attraente del libro, anche per il genetista che avesse già familiarità con il lavoro degli autori.
A grandi linee, per quanto riguarda il confronto eminentemente storico con l'archeologia si verifica un accordo notevole sull'origine africana della nostra specie e la prima divisione tra africani e non all'incirca 100.000 anni fa, la ramificazione verso nord-est attraverso l'Asia che porta fino all'ingresso in Australia 65.000 anni fa e successivamente all'ingresso nel continente americano da nord attraverso lo stretto di Bering 30.000 anni fa; ancora dall'Africa la ramificazione verso nord-ovest porta all'ingresso in Europa circa 40.000 anni fa. Il confronto con la storia delle lingue umane (che non è stata ancora ricostruita in modo chiaro) è assai più complesso e dibattuto, mentre invece il confronto geografico sembra più soddisfacente e almeno su un punto sembra possibile un accordo: la notevole corrispondenza biunivoca tra gruppi genetici e famiglie linguistiche.
È difficile descrivere compiutamente la mole di lavoro e di riflessioni che sono contenuti in questo testo. Esso rappresenta certamente lo sforzo massimo che la genetica delle popolazioni umane ha fatto fino a questo momento, ma soprattutto la punta più avanzata del tentativo di offrire una proficua interfaccia tra la genetica e le altre discipline che si occupano dell'uomo e della sua storia: non ci si può altro che augurare che genetisti e non genetisti apprezzino e sfruttino questa straordinaria occasione.
recensione di Gallino, L., L'Indice 1998, n. 2
Dinanzi a un simile lavoro, tutto lo spazio disponibile dovrebbe essere usato per enumerarne i pregi. Ma da una domanda non posso esimermi. Una volta accertata la correlazione statistica tra patrimoni genetici e patrimoni culturali, non si potrebbe fare un altro passo e vedere se tra i due non esista anche un rapporto di coevoluzione? Come mostra l'eccezionale massa di materiali raccolta e interpretata da Cavalli-Sforza, Menozzi e Piazza, a favore dell'esistenza della prima le prove sono numerose.
In specie nel caso delle lingue, la loro differenziazione e diffusione nel mondo sembra seguire da vicino le mappe e gli alberi della differenziazione genetica. Detto altrimenti, tra evoluzione genetica ed evoluzione linguistica, più specificamente tra albero evolutivo genetico e albero evolutivo linguistico, appare sussistere un'elevata congruenza.Il meccanismo che determina la correlazione, quale descritto nel libro, è semplice. I genitori trasmettono ovviamente ai figli i loro geni; dopo la nascita è quasi inevitabile che, di tutti i tratti culturali di cui dispongono, i primi trasmettano ai secondi in primo luogo la lingua. Per varie ragioni, legate al sesso o ad altre caratteristiche fisiche o psichiche, è possibile che un bambino si sottragga all'apprendimento di un rito, una pratica alimentare, un lavoro; mentre è praticamente impossibile si sottragga all'apprendimento della lingua dei genitori, salvo nei casi in cui è separato da questi subito dopo la nascita. Il parallelismo tra i due processi prosegue nel tempo: "quando due popolazioni si separano, inizia un processo di differenziazione sia dei geni sia delle lingue".
D'altra parte la correlazione osservata potrebbe essere spiegata da un processo di coevoluzione. Pur ammutolito come sono dall'ammirazione per la loro monumentale ricerca, mi chiedo come mai tale concetto non trovi in essa praticamente posto (né il lemma figura nell'indice analitico). Secondo il concetto di coevoluzione, la maggior parte dei geni e dei tratti culturali non sono reciprocamente neutri. La probabilità di lasciare discendenti, ovvero di replicarsi, è maggiore per quei geni (o meglio alleli) che ammettono risposte fenotipiche - culturali o comportamentali - capaci di neutralizzare con la loro variabilità le variazioni dell'ambiente. Senza tali elastiche difese fenotipiche ogni allele rischia di più. A loro volta sembrano avere maggiori probabilità di durare, ossia di venire trasmessi ai discendenti, quei tratti culturali che sono sorretti da variazioni genotipiche. La particolare brachiazione dell'"uomo anatomicamente moderno", come lo chiamano gli autori, derivò presumibilmente da un simile intreccio. L'invenzione di attrezzi da lancio, contundenti o taglienti, allo scopo di abbattere prede fu un tratto culturale che accrebbe l'idoneità delle popolazioni che la fecero; ma entro quelle popolazioni a lasciare maggiori discendenti furono probabilmente gli alleli che permettevano il dispiegamento di un'anatomia del braccio più adatta al lancio.
Tra i motivi per cui i sociologi - o almeno quei pochi che hanno ritenuto un complemento dovuto della loro preparazione lo studio della teoria biologica dell'evoluzione, pur nei limiti in cui ciò è possibile a chi è specializzato in un altro dominio - recano particolare interesse alla teoria della coevoluzione, metterei in primo piano il fatto che essa ci rende maggiormente responsabili dei nostri comportamenti. Se patrimonio genetico e patrimonio culturale sono statisticamente correlati, resta possibile che l'uno dei due si trasformi completamente, o scompaia, senza che l'altro ne soffra oltre misura. Per contro, nel caso in cui essi siano intimamente intrecciati, perché si sono evoluti in mutua interazione, se la diversità genetica si riduce, è il patrimonio culturale che scompare; e se si riduce la diversità culturale, è il patrimonio genetico che si impoverisce.
È in questa luce che inclinerei a leggere, sperando di non spiacere troppo agli autori, pure quello che mi pare sia il messaggio più alto e drammatico del loro libro. Dal punto di vista genetico noi siamo, essi dicono, una specie a rischio. Il rischio (se ho ben capito) proviene dalla riduzione della diversità genetica della specie indotta dall'infittirsi degli incontri e degli incroci tra popolazioni, nonché dalla scomparsa di molte di queste come insiemi geneticamente distinti. Come accade già con le granaglie, una forte riduzione della diversità aumenta la probabilità che non si trovi nella popolazione totale la varietà capace di far fronte a variazioni ambientali incontrollabili, come potrebbero essere i nuovi agenti virali di cui oggi tanto si parla. Aggiungerei che un rischio complementare proviene dalle biotecnologie, nonché dalle ormai da esse quasi indistinguibili tecnologie biomediche. In sostanza noi uomini anatomicamente moderni, ma intellettualmente alquanto neanderthaliani, ci stiamo comportando come un ingegnere impegnato a modificare ripetutamente il disegno d'una macchina, buttando via ogni volta la copia modificata del disegno. A un certo punto non saprà nemmeno più di che macchina si tratta.
Dinanzi a tale insensato comportamento specie-specifico, gli autori insistono a ragione sulla fondamentale importanza di conservare e ricostruire i disegni precedenti della macchina "Homo", ossia la memoria storica del nostro percorso evolutivo, prima che la scomparsa di intere popolazioni che di tale memoria sono altrettanti capitoli renda tutto ciò impossibile. Battaglia di importanza forse vitale per l'intera specie. Aggiungerei soltanto, e penso che gli autori sarebbero d'accordo, che la battaglia per ricostruire la memoria del nostro percorso evolutivo trova un suo naturale complemento nella lotta per conservare la diversità biologica e culturale, l'una pegno insostituibile dell'altra.
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