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Anno edizione: 2019
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Un libro che fa pensare a quanto odio è stato disperso in quegli anni, "Una storia quasi soltanto mia" di Licia Pinelli, vedova del defunto Pino, anarchico passivo rimasto ucciso da funzionari deviati della questura di milano degli anni di piombo. Anni critici. E' un libretto che ripercorre momenti e stati d'animo, oltre alle indagini del giudice dell'epoca . Da leggere e meditare.
Una testimonianza dura e dignitosa, pienà di riflessione, sentimento e verità.
Leggetelo, vale la pena veramente. Oggi come non mai. La storia si ripete oppure è proprio sempre la stessa storia? Un pensiero alla straordinaria figura di Licia, alla sua compostezza e dignità. Più che un libro un testo storico che consiglierei agli studenti.
Recensioni
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"Pino è stato il granello di sabbia che ha fatto saltare il meccanismo". A parlare è Licia Pinelli, la vedova del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, detto Pino, che in questo libro si racconta in una lunga intervista a Piero Scaramucci.
Il meccanismo è quello dei depistaggi che hanno ostacolato l'inchiesta sulla strage di piazza Fontana. Quando Pinelli la notte del 15 dicembre 1969 muore precipitando dalla finestra dell'ufficio del commissario Calabresi alla questura di Milano, il questore Guida convoca una conferenza stampa e annuncia che, vistosi scoperto, Pinelli si era suicidato. Tutte menzogne. Ma l'opinione pubblica si ribella e il meccanismo si inceppa. Accanto alle battaglie civili per la verità s'innescherà tragicamente la spirale della violenza. "Non si faceva in tempo a piangere una persona che già ce n'erano altre da metter nell'elenco", commenta amara Licia. La memoria di Pinelli è una ferita aperta con cui la società e le istituzioni stanno ancora facendo i conti. Con qualche passo avanti di grande valore simbolico, come l'evento che ha offerto l'occasione per la ristampa di questo libro (la prima edizione risale all'inizio degli anni ottanta): la partecipazione della famiglia Pinelli alla cerimonia del Quirinale per la Giornata della memoria del terrorismo. In quell'occasione Licia Pinelli ha incontrato Gemma Calabresi, vedova del commissario assassinato nel 1972 da Lotta continua in quanto ritenuto responsabile dell'assassinio di Pinelli. Il 9 maggio 2009, il Colle ha reso omaggio alla "figura di un innocente (
) vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un'improvvisa, assurda fine. Qui non si riapre o si rimette in questione un processo, la cui conclusione porta il nome di un magistrato di indiscutibile scrupolo e indipendenza": il riferimento è alla sentenza D'Ambrosio, che nel 1975 escluse sia l'omicidio che il suicidio, concludendo per l'ipotesi che la caduta fosse stata provocata da un malore, sentenza assai contestata. "Qui conclude si compie un gesto politico e istituzionale, si rompe il silenzio su una ferita, non separabile da quella dei 17 che persero la vita a Piazza Fontana": Pinelli è vittima innocente delle manovre messe in atto dagli apparati dello stato per scaricare la responsabilità della bomba sugli anarchici, "e su un nome, su un uomo, di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendolo alla rimozione e all'oblio".
La morte di Pinelli è uno scandalo che chiede di essere ancora e di nuovo raccontato, perché in uno stato democratico un uomo non può entrare vivo e innocente in una questura e uscirne morto quando i termini del suo fermo, non confermato dalla magistratura, sono già scaduti. Lo stato, ripete Licia, è responsabile della morte di Pino. Colpisce come lei li nomini sempre tutti, gli agenti che stavano nella stanza quando Pino cadde: Panessa, Mainardi, Caracuta, Lograno, e i loro superiori, Guida e Allegra. E già questo basta a marcare la distanza dai toni della campagna di diffamazione contro Calabresi, isolato come capro espiatorio. Quando uccidono il commissario, si sente defraudata lei stessa della possibilità di avere giustizia: non la sedicente "giustizia proletaria", ma quella dello stato di diritto. È importante, questo libro, perché racconta la fermezza e la dignità di una donna di fronte agli abusi di un potere che è passato sopra troppi cadaveri senza pagarne il prezzo. Racconta l'ostinata fiducia nella giustizia, pur attraverso lo sgomento e la rabbia per le reiterate menzogne e reticenze da parte della magistratura e della polizia.
La voce di Licia è scarna, asciutta, a volte ruvida, con venature improvvise di tenerezza e tagliente umorismo. Ha innalzato un muro tra la persona pubblica e lo spazio privato in cui ha relegato il dolore: "La notte era solo mia, taglia corto. I ricordi sono molto più forti di quanto possa essere io. E non voglio riprovare gli stessi sentimenti": colpisce l'onestà con cui racconta, senza fronzoli né infingimenti, quasi scherzandoci su, come abbia disimparato a lasciarsi andare, l'autocensura ferrea, l'indurimento, l'istinto di negarsi a un altro amore: "Non volevo più soffrire. Non è la fedeltà a un ricordo". Si identifica con i lavoratori delle cave di Carrara, la città dove riposano le spoglie di Pino: "Una durezza nella quale mi riconosco (
) è la volontà di non cedere mai, nonostante tutto (
) i perdenti in partenza che però non si arrendono mai (
) È questa durezza di fondo delle persone che sono costrette a subire le cose ma non si arrendono mai. E non è la durezza del boia".
Le parole pudiche e restie regalano immagini fulminanti. "È una casa di quattro donne e una gatta, e non è una famiglia": non ho trovato una descrizione altrettanto efficace per la disgregazione irrimediabile che segue alla morte di un marito e padre, la sofferenza atomizzata e incomunicabile che lascia dietro di sé, schiacciata nelle mura di una casa.
Ma in questo libro c'è anche la vita "prima". Incontriamo quel Pino solare, generoso, utopista, di strabordante umanità che ci viene incontro sorridente, in maniche di camicia, dalla foto in bianco e nero della copertina. Pino e Licia si incontrarono a un corso di esperanto. Lei si ammorbidisce nel matrimonio: "Di me ricordo che ero grassa e molto felice". C'è la vita serena della casa di ringhiera dove le porte sono sempre aperte e la curiosità pettegola dei vicini è un prezzo modesto da pagare in cambio del caldo senso di appartenenza a una comunità solidale: frammenti di una Milano che non esiste più. Licia sigilla nel suo dire scarno un grande amore: "Io mi sono sposata a ventisette anni (
) quando mi dicevano: "Ma come mai tu non ti sposi?" rispondevo: "Sai, veramente io vorrei trovare uno che sia un amante, un compagno, un amico". Mi dicevano: "Non lo troverai mai". Poi, quando l'ho trovato, dopo quattordici anni finisce tutto così". E più nitida si disegna allora la forza che l'ha sostenuta nell'interminabile battaglia legale: "Non è che tu ti rivolti solo per amore. Se ami molto, se è solo amore, rimani schiacciata dal dolore. Reagisci se cercano di calpestarti, umiliarti, renderti zero, reagisci per una questione di giustizia, non reagisci solo per amore".
Dalla casa di ringhiera, alle aule dei tribunali, ai circoli intellettuali. L'ammirazione profonda per Camilla Cederna, di cui Licia ricorda divertita la leggerezza e il lussuoso salotto stracolmo di gatti in ceramica, il garbo e la schiettezza di Corrado Stajano e Giuliana Borgese, la gentilezza di Pasolini. Non manca uno sguardo disincantato sui salotti dell'epoca (Licia rivendica orgogliosa di essere figlia di operai al punto di sentirsi quasi una "snob alla rovescia") e il fastidio per le riunioni più mondane che politiche, lo straniamento di fronte alle ipocrisie dettate dal conformismo ideologico.
In una delle postfazioni d'autore aggiunte al testo originale in questa ristampa (tra le firme, Dario Fo e Franca Rame, Corrado Stajano, Giorgio Bocca, Lella Costa), l'avvocato Carlo Smuraglia, che ha assistito Licia in tutte le battaglie processuali, scrive come della storia di Pinelli fa riflettere ancora e particolarmente oggi "la reazione di persone e strati sociali 'diffusi' di fronte a un evento così tragico, alle bugie, alle contorsioni del potere". Persone di ogni provenienza sociale, spesso nemmeno impegnate in politica. L'indignazione pacifica di tante persone è stata oscurata dalle azioni violente della minoranza che si è armata. Ma la ferma ricerca di giustizia entro i confini dello stato di diritto di quella signora seduta ben dritta nel suo tailleur scuro, al Quirinale, dove finalmente la memoria di Pino viene ripulita da accuse infamanti, è lì a ricordarci che la strada da seguire non può essere che quella.
Benedetta Tobagi
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