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Luigi Grassia non tradisce il lettore fin dalle prime pagine. Quanto promesso nella prefazione di Massimo Gramellini viene via via mantenuto in quegli appunti di viaggio che compongono il libro. Dalla riserva dei Sioux al braccio di mare tra Svezia e Danimarca, dalla provincia torinese al confine tra le due Coree, Grassia narra le sue peregrinazioni, dimostrando come l'essere un giornalista non sia uno status sociale, ma una condizione fisica fatta di curiosità e sensibilità.
Con uno stile semplice ma mai banale, il giornalista della "Stampa" sfata l'adagio secondo il quale la serietà deve essere pedante. La dimensione del reportage e il dietro le quinte del mestiere del giornalista si intrecciano in una narrazione che procede per associazioni di idee, a volte seguendo più la logica in altre più l'emozione. Il lettore può passare dal reportage puro, come il resoconto di una battaglia che ha coinvolto l'esercito italiano in Somalia, a curiosità del mestiere dell'inviato spesso taciute nei reportage "ufficiali" come, ad esempio, cosa voglia dire volare su uno di quegli aerei da trasporto truppe non insonorizzati. Il lettore può seguire Grassia nelle sue disavventure a bordo di una mongolfiera in Australia o gustarsi una raccolta di buffe notizie di agenzia. Ne deriva, alla fine, un flusso di coscienza che illumina episodi e particolari di una storia più grande e che per questo può essere apprezzato sia dal lettore alle prime armi sia da quello più smaliziato.
La costruzione del racconto passa per frasi dirette e per una generale leggerezza del periodo, mentre lo stile si caratterizza per l'uso dell'ironia e il gusto dell'aneddoto che esaltano la narrazione, contribuendo anche a creare un doppio livello di lettura. È una piacevole sorpresa scoprire come, in un panorama dell'informazione che va dall'inconsistenza linguistica del gossip più stupido alla pesantezza di piombo di alcuni notisti dei quotidiani nazionali, ci sia un giornalista che segue una terza via. Quella che utilizza la costruzione del pensiero in funzione dei fatti e dei personaggi. Uno, tra i tanti tratteggiati, quello dell'impiegato di una società telefonica di una capitale europea che si rifiutava di registrare un corrispondente nostrano il cui cognome finiva in "n", sostenendo fosse falso: "Non lo sa che tutti i cognomi italiani finiscono con una vocale?". Un'impasse superata, narra Grassia, solo grazie al colpo di genio del corrispondente nel citare una marca di abbigliamento veneta nota in tutto il mondo.
"Da bambino mi sono mangiato un foglio di giornale" racconta l'autore nelle prime pagine. Con Sulle tracce di Cavallo Pazzo Luigi Grassia dimostra che quel foglio l'ha digerito benissimo.
Domenico Affinito
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