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recensione di Riberi, L., L'Indice 1998, n. 6
Il testo delle lezioni "sullo studio della Storia" tenute da Burckhardt a Basilea dal 1868 al 1873, da lui destinato alla distruzione, fu pubblicato nel 1905 da Jacob Oeri, suo nipote ed esecutore testamentario, l'autore di pesanti interventi e tagli, miranti a dare una forma stilisticamente elegante e un senso compiuto ad appunti destinati a essere sviluppati oralmente.
Nell'attesa di un'edizione critica delle opere avviata dalla Fondazione Burckhardt, e dopo un'analoga edizione tedesca del 1982 condotta secondo altri criteri, Maurizio Ghelardi ha avuto la meritoria iniziativa di allestire una nuova edizione italiana di questo testo, basata sui manoscritti originali e mirante a ripristinarne la struttura originaria, eliminando le manipolazioni di Oeri. Un buon modo di celebrare il centenario della morte di Burckhardt (1897), passato in Italia sotto un silenzio quasi totale.
Il testo adottato è l'ultima e più elaborata stesura delle lezioni, risalente al 1872-73. Sul piano formale, la precedente suddivisione dei "capitoli" rimane in gran parte invariata, ma l'ordine è cambiato; in particolare, è stata posta in apertura l'importante conferenza del 1871 su "Felicità e fortuna, infelicità e sfortuna nella storia universale". Sono state inoltre ripristinate le annotazioni a margine di Burckhardt, in precedenza inserite nel testo; diviene così più chiaro il modo di procedere dello storico, che ricorre a queste note sia per addurre esempi sia per aprire nuove direzioni, probabilmente poi approfondite a voce. Infine, si è facilitata la distinzione delle citazioni da altri autori. Il quadro che ne risulta non presenta novità clamorose, ma forse sposta un po' le coordinate di riferimento; sarà anche l'effetto della forma, necessariamente asciutta e frammentaria, ma si ha l'impressione che la "contemplazione" di Burckhardt sia un po' meno "rassegnata" di quanto si sia abituati a considerarla.
Da tempo Burckhardt era conscio che "il XIX secolo si è aperto con una "tabula rasa" in ogni campo"; la rivoluzione francese aveva liberato "una cieca volontà di trasformazione che gli ottimisti chiamano progresso", di fronte alla quale occorreva "liberarsi da entusiasmi e timori" e dedicarsi alla conoscenza storica. A tal fine serviva uno sguardo variegato e "trasversale", prodotto del rifiuto di ogni filosofia della storia, il temuto "centauro", mostro dai due corpi. Lo scopo principale di Burckhardt era offrire a ogni persona istruita un metodo per cercare dei punti di riferimento nel "fluire delle necessità". Di qui l'istanza contemplativa come "diritto, dovere e bisogno di libertà", e l'esigenza di studiare la cultura come unica costante e massima espressione dello spirito umano, di fronte all'autoritarismo dello Stato centralizzato e al dogmatismo di ogni religione.
Certo, in Burckhardt agiva un pessimismo antropologico di matrice schopenhaueriana, che alimentava la sua peculiare "Kulturkritik". Ma Burckhardt era un pessimista culturale "sui generis", uno dei pochi antimodernisti che colsero appieno la duplicità del moderno, che apprezzarono il "grande vantaggio" di poter conoscere il contrasto vecchio/nuovo e la complessità della vita moderna. Nel proclamare la superiorità dell'individualismo produttore di conoscenze e opere sull'individualismo dominatore della realtà e degli uomini, egli ribadiva che l'unica consolazione stava nella conoscenza; ma, come ebbe a dire Delio Cantimori, non era una consolazione da poco. Per questo, forse, Burckhardt affermava che nell'epoca della rivoluzione la storia era diventata (e viene da aggiungere: malgrado tutto) "infinitamente più interessante".
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