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È stato Gilles Deleuze – ce lo dice Davide Tarizzo in una riflessione sulla “metafisica del caos” – a mostrare come non solo l’immagine rompa l’antica alleanza tra l’essere e il linguaggio, ma quanto sia necessario fare i conti con il pensiero stesso delle immagini: un pensiero del fuori , una fedeltà che si collega da una parte alla (deleuziana) visione metafisica che si àncora nell’uomo e che fa «a meno dell’ipotesi di Dio», dall’altra «all’idea di una creazione nel tempo, o di un tempo creativo e creatore». Partendo da queste considerazioni, e da un’intuizione luminosa che pone al centro dell’attenzione la condizione della superficie nelle visioni estetiche attuali, Giuliana Bruno avanza una nuova riflessione – anche se le sue premesse si trovano nell’ Atlas of Emotion (2002; Atlante delle emozioni , Bruno Mondadori 2006 e Johan & Levi 2015 ) e in Public Intimacy (2007; Pubbliche intimità, Bruno Mondadori 2009), due volumi in cui l’autrice si concentra su un paesaggio interdisciplinare dove la connessione è determinata da sistemi di contatto di natura aptica e prossemica – sulla «materialità nell’epoca del virtuale», per «mostrare in che modo essa si manifesti nei media attuali come tensione di superficie», come spostamento dall’ottico all’aptico.
La tesi che Bruno propone nel suo Superfici – volume stampato per la prima volta in Cina per conto della University of Chicago Press (2014) e oggi pubblicato in elegante edizione italiana da Johan & Levi – è legata alla convinzione di fondo «che la materialità non riguardi i materiali, bensì la sostanza delle relazioni materiali». Nell’ampia trasformazione mediatica che investe e invade i tessuti artistici d’oggi, l’indagine di Giuliana Bruno pone infatti la materialità della superficie al centro di un discorso che, tra la fenomenologia dell’arte, l’estetica della luce e la semiologia degli spazi espositivi, si fa «luogo in cui le distinzioni tra interno ed esterno si dissolvono temporaneamente nello spessore della superficie»: di una dimensione intesa come ambiente polifonico, come sviluppo visionario e immedesimativo («nella trattazione includeremo una particolare forma di proiezione, vale a dire l’Einfühlung, un’“immedesimazione” che è empatia non solo verso le persone, ma anche nei confronti degli spazi e delle cose»), come territorio dove si intrecciano l’estetica, l’apticità e l’affettività.
Partendo da una Questione di tessuto, da un discorso emotivo che riguarda la restituzione affettiva, il rovesciabile e la reciprocità, il volume propone via via un percorso che affronta i vari volti della creatività umana – lo spazio della moda e del cinema, quello dell’architettura e dell’arte contemporanea legata alla luce e alla sua estetica – per disegnare un percorso teorico che si avvale di esempi, di piccoli ed eleganti focus su alcuni volti, individuati e attraversati per sottolineare al meglio la profondità della superficie. Quel cono danzante a luce solida, ad esempio, è un meraviglioso cammeo critico dedicato al lavoro di Anthony McCall (ma non si può non pensare anche a Fabio Mauri), indagato per considerare la luce come presenza scultorea, «fatta per essere vissuta come una forma solida».
Assorbente, respingente, accecante, fuorviante o smaterializzante per modificare «la tettonica della parete e concretizzarla altresì in un’altra superficie», la luce è parola d’ordine che nel discorso di Giuliana Bruno coniuga lo spazio al tempo (elabora il fare spazio al tempo e alla storia, più precisamente), trasforma la superficie in profondità, in attenzione che buca le pareti della mente e trasporta il pubblico – anche il pubblico distratto indicato da Benjamin – al di là della parete, dello schermo, della pelle, dell’involucro, della vetrina che privilegia l’aspetto al contenuto. Dalle Trame del visuale alle Superfici di luce , dagli Schermi di proiezione ai Materiali dell’immaginazione, l’autrice persegue un nuovo materialismo il cui potenziale intreccia insieme la plasticità dello spazio allo scorrere del tempo, l’aperto al chiuso, l’esteriore all’interiore, l’ innen all’außen.
Le forme di conoscenza dell’apparenza e il “sapere della superficie” – quel sapere inaugurato da Nietzsche e ripreso da Simmel, da Benjamin, dalla cultura viennese, da Foucault e dallo sguardo pungente di Deleuze – diventano così, per Bruno, filamenti di un progetto coinvolgente che trascina il lettore nell’intimità della temporalità (tra le pieghe e le piaghe, le cuciture e le fenditure del tempo), «nel potenziale di una filosofia della materialità»: in «quel particolare spazio che Jacques Rancière chiama “il disegno della superficie delle cose”».
Recensione di Antonello Tolve.
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