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recensione di Favetto, G.L., L'Indice 1987, n. 9
Quattro testi, quattro modi africani di intendere e affrontare il teatro che potremmo definire, per intenderci, all'europea; quattro scritture che devono misurarsi con lingue prese a prestito e devono riconquistare un linguaggio puramente teatrale filtrandolo attraverso stilemi e forme estranee alla propria matrice culturale. Wole Soyinka, premio Nobel lo scorso anno, classe 1934, e Ben Tomoloju, di vent'anni più giovane, entrambi nigeriani, scrivono in inglese. I congolesi Sony Labou Tansi, 40 anni, e Sylvain Bemba, 53 anni, si esprimono in francese. Bemba e Tomoloju (che pensa a un teatro totalmente in lingua "nera", nel suo caso il yoruba) si rifanno con più schiettezza alla tradizione orale e, richiamandosi al mito, raccontano per immagini l'anima africana. Labou Tansi e, soprattutto, Soyinka costruendo storie di buona fattura letteraria tendono a presentarsi e a "garantirsi" come autori cosmopoliti che sulla materia Africa intervengono con la loro carica esplosiva. E ancora: i testi di questi ultimi sembrano destinati a una scena e a una concezione tradizionale del teatro, mentre Bemba e Tomoloju dimostrano di concepire il lavoro letterario come partitura per qualcosa che, prima di essere spettacolo, è rito, cerimonia, sacra rappresentazione di una comunità che porta in scena se stessa. Di differente tensione stilistica, i quattro testi partecipano di una notevole coscienza politico-sociale, si presentano come fascinose testimonianze di impegno morale. "La metamorfosi di Fratel Geronimo" di Soyinka denuncia la corruzione e gli intrallazzi in una baraccopoli di Lagos fra bizzarri profeti, mercanti d'anime e amministratori pubblici.
"Che ne è di Ignoumba il cacciatore?" di Bemba è un'inchiesta pubblica sulla misteriosa fine del più bravo cacciatore del villaggio. "Antoine mi ha venduto il suo destino" di Labou Tansi è la tragica farsa di un tiranno-padre della patria che, temendo una cospirazione, finge un colpo di stato e rimane vittima dei suoi stessi disegni e del suo sconfinato orgoglio. In "Jankariwo", ovvero "Ragnatela", Tomoloju imprigiona il figlio di un corrotto politicante locale, costretto a pagare, nella cerimonia condotta dal cantastorie Sapon, le numerose colpe dei genitori. Frutto di una sensibilità che impasta fatalismo e magia, fisicità della memoria e delle parole ed espressività gestuale, visiva, musicale, questi drammi sarcastici e dissacranti danno spazio allo sberleffo e al grottesco. Per dirla con Labou Tansi, sembrano tutti "un'offerta di carne e di sangue", "una difesa della natura profonda dell'uomo e della sua semplicità magica".
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