È un libro che permette due letture molto diverse tra loro. La prima è ordinata. Siamo di fronte a una raccolta di saggi, composti nell'arco di vent'anni e più, che percorrono l'intero Novecento, per approdare infine al secolo nuovo. L'autore li ha raggruppati in sequenze non cronologiche, ma di genere. La prima parte, forse la più utile, approfondisce concetti particolarmente discussi come teatro "postdrammatico", o "corporeità", parola-chiave oscura e fondamentale dei nostri tempi. La seconda parte è formata da primi piani: da Decroux ad Artaud, e da Beckett a Grotowski. De Marinis aggiunge dettagli e punti di vista nuovi, e discute il lascito di questi maestri del Novecento ai tempi attuali. La terza parte, la più variegata, è composta da medaglioni su personalità e fenomeni di tipo e peso differenti: si va dalla vocazione teatrale del grande musicista e sperimentatore Luigi Nono a una storia dei movimenti teatrali invisibili tra fine Novecento e inizio Duemila. Non è un'opera che pretenda di essere esaustiva, o che miri alla sistematicità. Ma proprio da questo aspetto voluto, da una consapevole incompletezza e perfino casualità, affiora un secondo volto, quasi opposto al primo, fatto di salti e peripezie, di sorprese e di ritorni. È il racconto, militante, e stranamente struggente, nonostante la scrittura sempre ferma e ordinata dell'autore, di un'epoca in via di sparizione. Spostandosi da un protagonista a un altro, da una storia all'altra, da un concetto all'altro, il libro riesce, come di rado accade, non a raccontarci, ma a darci esperienza della molteplicità (e della stranezza) delle questioni di cui una parte importante del Novecento teatrale si è nutrito. Il teatro si studia meglio attraverso questi squarci laterali che attraverso costruzioni frontali, non solo inevitabilmente piatte, ma appiattenti. Attraverso la semi-casualità dei racconti riscopriamo invece punti di riferimento e ricerche comuni; problemi che si riuniscono in costellazioni; percorriamo valori ricercati in cento anni di teatro; conosciamo la sua natura "pedagogica, curativa e sociopolitica", e il nesso misterioso e tenace tra autobiografia e teatro; incontriamo l'indagine "sulle leggi della vita che scorre" portata avanti da tanti, e la natura profondamente politica del lavoro su di sé dell'attore. Il mondo che siamo invitati a esplorare non è quello di particolari tecniche o poetiche quanto quello del teatro come forma estrema di resistenza. Passando da un artista all'altro, come in un telefono senza fili, questi risvolti esistenziali dell'agire teatrale creano una unità sotterranea paradossale, lunga un secolo. Ora, dice De Marinis "una nuova cultura teatrale sta cercando di costruirsi su basi completamente differenti, mediante una rottura secca, e ostentata, con quella novecentesca". Forse è una crisi estrema, o forse sta nascendo una nuova ecologia teatrale. È una constatazione oggettiva. Eppure, l'autore non dimentica di essere un uomo del Novecento. Osserva con simpatia e con speranza i nuovi teatri. Ma non dimentica di appartenere all'altra cultura, quella in via di sparizione, fatta da maestri oggi meno seguiti, o forse rifiutati. Nei libri di studi teatrali la qualità scientifica non basta. A essa deve affiancarsi anche altro, una qualità umana. Il nesso tra autobiografia e teatro è strano, ma profondo davvero. Vale anche per gli studi: una polpa segreta sotto la scorza di un lavoro ben fatto. Mirella Schino
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