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Centrale nel mondo anglosassone, il genere biografico non è molto praticato né molto amato in Italia, se non nella forma più divulgativa, che mette alla portata di un vasto pubblico i risultati di ricerche e pubblicazioni preesistenti. Basti pensare che quando Cesare Garboli ha dedicato a Pascoli una biografia che è tra i più bei libri italiani dell'ultimo decennio, le ha imposto il pudico camuffamento di un titolo minimalista e sviante, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli (Einaudi, 1990). In questo contesto non molto incoraggiante (pare sia stata chiusa l'importante collana biografica della Utet, mentre la bella serie di grandi biografie pubblicate da Bollati Boringhieri non comprende un solo titolo di autore italiano), Sandro Gerbi, con Tempi di malafede, si colloca tra le rare eccezioni: impiegando al meglio proprio gli strumenti del biografo - in particolare l'attenta cernita di documenti inediti e la raccolta di testimonianze di prima mano - ci offre infatti il tracciato discontinuo di una straordinaria amicizia, in cui si rispecchiano le tensioni, i drammi e le ambiguità di un'intera generazione di intellettuali, quella che faceva il suo ingresso nel mondo della stampa, dell'editoria e della cultura accademica intorno al 1930, all'ombra di un regime di cui nulla sembrava incrinare la duratura solidità. Condiscepoli alla facoltà di filosofia di Milano, Guido Piovene ed Eugenio Colorni si incontrano nel 1928 alle lezioni di due maestri non allineati con la cultura ufficiale: il critico letterario e romanziere Borgese, che nel 1931 emigrerà negli Stati Uniti, e il grande filosofo kantiano della libertà Piero Martinetti, che sempre nel '31 sarà tra i pochissimi professori universitari che rifiuteranno di giurare fedeltà al regime. Quando un gruppo di squadristi, il 6 febbraio del 1930, interrompe con una violenta gazzarra una lezione di Borgese, tra gli allievi che si battono in difesa del docente compaiono in prima fila Colorni e Piovene: benché provengano da ambienti diversi (Piovene dall'aristocrazia veneta più cattolica e retriva, Colorni dalla borghesia ebraica illuminata e progressista), è maturata tra loro un'amicizia profonda, alimentata da comuni letture filosofiche e letterarie di respiro europeo. L'episodio che nel 1931 li divide, e spezza per dieci anni il loro sodalizio, ha un che di enigmatico: Piovene, ai primi passi nel giornalismo ufficiale, dissemina in una serie di articoli riflessioni e frecciate antisemite, dirette a volte in modo piuttosto trasparente contro l'amico. Si direbbe emerga in Piovene - nel momento in cui, per arrivismo, sta compromettendosi con il regime in modo irrimediabile - un sordo risentimento contro tutto quel che Colorni rappresenta, contro la sua intelligenza che non verrà mai a patti con il fascismo, contro la sua tranquilla e irremovibile superiorità morale. Da quel momento le loro vie divergono: mentre Piovene, vero virtuoso della riserva mentale, incensa Mussolini e perfino il razzista Interlandi, ritagliandosi qualche precario spazio d'indipendenza negli scritti d'arte e di pura letteratura, Colorni si impegna nella lotta antifascista e conosce la dura esperienza del confino a Ventotene. Ma se sul piano etico sono ormai irriducibilmente contrapposti, qualche cosa sopravvive delle affinità intellettuali che li hanno uniti dieci anni prima. Quando, nella primavera del 1941, Piovene pubblica il romanzo Lettere di una novizia - che si apre con una sottilissima e geniale analisi della "malafede" -, Colorni, ammirato, e forse commosso da quanto intuisce di autobiografico in quelle pagine, lo cerca e riallaccia il filo dell'amicizia interrotta; la partecipazione del romanziere pentito alla Resistenza romana consoliderà più tardi il riavvicinamento. Nella Roma della lotta clandestina i due antichi compagni di studi riprendono il loro dialogo. "Colorni detestava - scrive Piovene - una certa filosofia, la filosofia dei sistemi. (...) L'indagine scientifica gli aveva dimostrato che i grandi progressi dell'uomo sono compiuti quando viene distrutta una legge, che si credeva eterna, e invece è solo antropomorfica, dovuta al nostro desiderio di imporre al mondo noi stessi, con le nostre speranze e il nostro amore di quiete. Una scoperta, egli diceva, si compie retrocedendo da noi stessi, distruggendosi in parte, noi stessi e una delle leggi che noi poniamo a nostra immagine". La tragica morte di Colorni, trucidato dai fascisti il 27 maggio del 1944, non chiude la vicenda di Tempi di malafede. Piovene gli sopravviverà per trent'anni, si riciclerà, un po' avventatamente, nelle file comuniste, e non tutti gli perdoneranno con la stessa magnanimità dell'amico scomparso il suo poco edificante passato. L'appassionata ricostruzione di Gerbi investe, per quel che concerne gli anni del dopoguerra, tanto il mondo letterario e culturale, quanto la tormentata interiorità del romanziere: se da un lato assistiamo alle polemiche che accolgono nel 1963 La coda di paglia, confessione-autodifesa di un Piovene non troppo contrito, dall'altro seguiamo, di testo in testo, l'elaborazione di una serie di personaggi in cui lo scrittore veneto fa rivivere, in una sorta di lungo e doloroso esorcismo poetico, la memoria di Eugenio. Tardivamente, dal "perdono" di Colorni germina nelle pagine di Piovene un'estrema catarsi: non sul terreno della vita ma su quello della scrittura, il solo su cui gli sia stato dato conseguire una sua indiscutibile autenticità.
recensioni di Bertini, M. L'Indice del 1999, n. 11
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