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Nel luglio del 2005 un giovane reporter pubblica la sua prima "storia di copertina" su un noto magazine britannico: un reportage sui giovani musulmani di Beeston, il sobborgo di Leeds, in Inghilterra, dove erano cresciuti gli attentatori che pochi giorni prima avevano fatto esplodere treni e autobus a Londra provocando una strage. L'autore, ventiquattrenne, si soffermava sulla frattura generazionale visibile tra i musulmani immigrati, il senso di frustrazione dei figli, il loro estraniarsi rispetto ai genitori, quel sentirsi né pakistani né inglesi che li spingeva a darsi una nuova identità musulmana "extranazionale": ecco, concludeva, il terreno su cui cresce l'estremismo islamico in Gran Bretagna.
Spiegazioni troppo semplici? Certo è che per Aatish Taseer, figlio di una giornalista indiana e di un politico pakistano, cresciuto a New Delhi con la madre e la sua famiglia sikh, e con una foto incorniciata come unica presenza del padre, quel giro a Beeston diventa l'antefatto di un nuovo viaggio, più complesso, che racconterà in Straniero alla mia storia. Un percorso duplice, per la verità: viaggio "nelle terre dell'islam" ma anche, forse ancor più, attraverso le multiple identità del subcontinente indiano, di cui l'autore stesso è figlio. Quel reportage sull'estremismo islamico in Inghilterra, infatti, gli frutta la prima lettera che suo padre gli abbia mai scritto da quando è nato: gelido, lo accusa di avallare la propaganda contro i musulmani senza capire le ragioni per cui l'estremismo si espande. È allora che l'autore si chiede: cosa significa definirsi musulmano? Cresciuto in un ambiente laico ed eterogeneo, Taseer non capisce come i suoi coetanei di Beeston trovino nell'islam un'identità "al di sopra della storia". Ancor più si chiede "in che modo mio padre, che si professava miscredente rispetto ai principi fondamentali dell'islam, potesse definirsi musulmano", quasi fosse un'identità nazionale.
Per rispondersi, Taseer viaggia tra Istanbul e Damasco, Gedda e la Mecca, Tehran e infine il Pakistan: paesi musulmani ma profondamente diversi tra loro per storia e sistemi politici. Un po' reportage, un po' ricerca interiore per comprendere il padre, il viaggio si rivela uno slalom tra identità ricostruite, storia immaginata, alienazione presente. Nella laica Turchia, dove l'islam è brandito in reazione alla laicità di stato, trova il giovane Abdullah, che voleva studiare economia ma è finito a studiare il Corano: si professa convinto che l'islam, con i suoi valori immutabili nel tempo, sia l'unico sistema ideale capace di resistere all'aggressione del "sistema mondo", di cui la civiltà occidentale è il centro. Nella Siria del nazionalismo arabo (una volta laico) scopre che le moschee fioriscono, anche perché in assenza di libertà di stampa e di espressione culturale sono l'unico spazio. E però, con stupore, nota quanto sia politicizzato il sermone del venerdì ad Abu Nour, scuola coranica di fama internazionale, con ministri e gran muftì uniti nell'assimilare i nemici dell'islam a quelli del governo: è noto che "la moschea si sporca le mani vezzeggiando i dittatori", e questi a loro volta cercano legittimità nella moschea.
Sempre a Damasco sente il Gran Muftì di Bosnia riscrivere la storia: dalla reconquista cattolica dell'Andalusia al Trattato di Berlino che nel 1878 tolse i Balcani all'impero ottomano, una lunga storia di aggressioni dell'Occidente cristiano contro l'islam. Annota: tutto punta a promuovere l'idea di un grande passato islamico, da ripristinare anche nel suo perduto potere temporale "tornando alla lettera del Libro". "Seminascosti dalla fede" sono i problemi del mondo reale, nota Taseer: la frustrazione del sentirsi culturalmente depredati, le pulizie etniche viste sugli schermi tv, l'emigrazione, la perdita di identità: cose che "definivano l'esperienza moderna, nulla di specifico all'islam". Ma "la moschea solleva problemi reali e li soffoca nella preghiera".
Il viaggio prosegue con un abbozzo di pellegrinaggio alla Mecca, dove l'autore si sente fuori posto. E un passaggio in Iran, che nel 1979 ha sperimentato una rivoluzione islamica, ma dove la storia preislamica è inaspettatamente presente, e dove l'autore assaggia quanto sia pervasiva la forza disciplinare del regime.
Tutto questo però è alternato a un altro percorso, più personale: la memoria dell'infanzia tra i cugini sikh, il turbinoso amore tra sua madre e suo padre e la loro separazione definitiva quando lui aveva appena diciotto mesi, i vani tentativi di stabilire un contatto con questo padre distante: Salman Taseer, oggi governatore del Punjab pakistano, che aveva incontrato Zulfiqar Ali Bhutto a Londra e ne era diventato un fervente ammiratore, per poi seguirne la figlia Benazir nelle battaglie politiche. Memorie più remote: la famiglia materna costretta a lasciare Lahore, nel 1947, dopo la Partizione tra Pakistan e India.
I due viaggi convivono felicemente nella scrittura. E si fondono nell'ultima tappa, il Pakistan: dove l'autore cerca di capire come una nazione possa essere tenuta insieme dalla fede. Infatti è l'islam la ragion d'essere del Pakistan, nato come nazione dei musulmani del subcontinente indiano, e per differenziarsi dall'India i pakistani stentano a riconoscere gli elementi culturali del passato comune, come la tradizione sufi intrisa di induismo. Ma la religione non basta a fare una nazione, constata l'autore, che trova l'identità musulmana frammentata in tante identità differenziate e in conflitto fra loro, in un paese segnato dal sistema feudale, "privo di leggi e ferocemente diviso al suo interno".
Non è chiaro se Aatish Taseer abbia trovato risposte alla domanda iniziale. Ma quando arriva a Lahore il 27 dicembre 2007, la sera in cui Benazir Bhutto viene uccisa, e trova suo padre devastato dal lutto, prova infine qualche simpatia per "quell'uomo che avevo giudicato duramente perché non aveva saputo affrontare il suo passato quando si trattava di me, e ora vedevo meditare sulla storia crudele del suo paese".
Marina Forti
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