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Mama Hawa è una regina in camice bianco. A 66 anni, laureata in Medicina e in Legge, è divenuta famosa in Somalia e ora, grazie alla sua autobiografia, in tutta Europa, per essere una delle prime ginecologhe del suo paese, per aver fondato uno dei campi profughi più estesi della Somalia e per come riesca a dirigere, facendo dei veri e propri miracoli quotidiani, un ospedale da 400 posti letto e 125 operatori.
Dopo 23 anni di guerra civile, le minacce dei fondamentalisti islamici e una biografia da strappare le lacrime, Hawa Abdi, oggi è considerata una vera e propria istituzione. L’imprenditrice del soccorso umanitario, paragonata a Madre Teresa e candidata al prossimo Premio Nobel per la Pace, scrive in queste pagine la sua sorprendente storia personale.
Laureata giovanissima nel 1971 in Ucraina, grazie a una borsa di studio dell’Unione Sovietica, nei primi anni Ottanta decide di tornare nel suo paese dove compra un piccolo appezzamento di terra e vi insedia il suo ambulatorio di ginecologia. Le pazienti, giovani madri costrette a dolorosi e spesso letali parti, vivono nei villaggi vicini. È lei che le va a cercare per portarle nella sua unica stanza, dove con 35 centesimi di dollaro, o nulla, salva le loro vite. Quando scoppia la guerra civile nel 1991, la sua fattoria si trasforma in un campo profughi. Un posto baciato dalla grazia di Dio, in cui negli anni, secondo le stime, hanno trovato rifugio, cibo e protezione, più di 90 mila persone.
Per Mama Hawa non ci sono tribù nemiche né fazioni avversarie, ci sono uomini e soprattutto donne bisognose. Quando si rivolge al Presidente somalo, Siad Barre, per il nulla hosta necessario a costruire la sua prima sala operatoria, nonostante sia un avversario politico di suo marito, riesce a spuntarla, con grande forza d’animo e determinazione.
Sarà il primo degli struggenti episodi descritti in questa autobiografia. La morte del suo unico figlio maschio, di una sua amatissima sorella e di suo marito, scalfiranno l’animo di questa donna illuminata senza mai prostrarla. La scoperta di un tumore al cervello e l’intervento cui dovette sottoporsi, la fiaccheranno senza farle perdere la speranza.
Una vita ispirata, un’esistenza dedita alla cura degli altri, una storia straordinaria che inizia con la morte e l’incuria a cui giovanissima assiste e si conclude con una grandiosa impresa personale. Dopo oltre vent’anni di attività, oggi gli ospiti del Camp for International Displaced Person, sono entrati a far parte della sua famiglia insieme alle sue due adorate figlie. Nel campo situato a sud della capitale somala, come dell’ospedale di Afgoye e nel Women educational center di Mogadiscio mancano ancora moltissime cose essenziali, come l’acqua, il cibo, le medicine, ma migliaia di famiglie trovano oggi protezione intorno a quella singola stanza dove tutto è cominciato.
Sulle loro teste spesso c’è soltanto l’ombra di un albero, sotto i loro piedi tanti corpi di vittime della guerra e delle epidemie, ma nel loro petto batte la certezza che finché rimarranno intorno alla casa di Mama Hawa nessuno metterà a rischio la loro sicurezza. Nel boschetto dei manghi al limite del campo, i vecchi uomini somali la sera si riuniscono intorno al fuoco e raccontano storie antiche, contribuendo al radicarsi delle loro tradizioni e alla diffusione della loro storia. La missione di Mama Hawa è questa. La sua vita, descritta con trasporto in queste pagine, serve a testimoniare la vita di milioni di uomini e donne africane che, pur avendo perso tutti i loro averi, le loro famiglie e spesso anche il sonno a causa della guerra, finché resterà un albero frondoso intorno al quale riunirsi, non perderanno mai la speranza che la verità venga alla luce.
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