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Anno edizione: 2021
Anno edizione: 2020
recensioni di Luzzatto, S. L'Indice del 1999, n. 12
"Su tre cospiratori uno è una spia; il secondo è uno scioccone, che per vanità di parere bene informato racconta alla spia quanto sa sul terzo; e il terzo e il secondo vanno in galera, grazie al primo": alla penna arguta di Gaetano Salvemini bastarono poche righe per riassumere la vicenda di agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, cui Mimmo Franzinelli dedica ora centinaia di pagine. Ma - diciamolo subito - questo studio monumentale su I tentacoli dell'Ovra riesce tutt'altro che verboso: al contrario, si segnala per l'asciuttezza dello stile. Sul tema degli informatori di polizia durante il Ventennio, la storiografia revisionistica è venuta accumulando contributi tanto ristretti nella base documentaria quanto chiassosi nelle proposte interpretative: fino a inventare un "caso Silone" (cfr. "L'Indice", 1999, n. 9). Opposta la scelta di Franzinelli, che ha esplorato gli archivi dell'Ovra cercando non già il nome scandaloso, la spia da grancassa mediatica, quanto piuttosto l'informatore qualunque, lo spione medio nell'occhiuta Italia di Mussolini.
Al cuore di un sistema che elevò la polizia politica a strumento di governo, Franzinelli riconosce il Duce in persona. Per l'intero arco del Ventennio o quasi, Mussolini si tenne ben stretto il ministero dell'Interno; e dalla crisi Matteotti alla guerra mondiale conservò un uomo di fiducia, Arturo Bocchini, ai vertici dell'apparato repressivo. Al duce stesso risaliva l'idea - geniale - del termine Ovra, una sigla tanto più inquietante quanto più misteriosa. Opera Volontaria di Repressione Antifascista? Organo di Vigilanza dei Reati Antistatali? Insoluto a tutt'oggi, l'enigma dell'acrostico nascondeva probabilmente la realtà di una denominazione che nulla significava di preciso, ma arieggiava fin troppo la leggenda nera dell'Ochrana zarista e l'immagine tentacolare della piovra.
Durante la seconda metà degli anni venti, le cure della polizia segreta furono principalmente rivolte al fuoriuscitismo. Con laboriosa sistematicità, gli uomini di Bocchini infiltrarono gli ambienti dell'emigrazione politica, più che altro in quel "paradiso delle spie" che era allora la Francia. I fiduciari del regime non si limitavano ad avvelenare i rapporti fra gli esuli e i governi ospitanti con opere di disinformazione e di calunnia. Agenti provocatori si incaricavano di coinvolgere i fuoriusciti nella trama di questo o quell'attentato, la cui "scoperta" all'estero immancabilmente giustificava un giro di vite in Italia. Soprattutto, le spie del regime si improvvisavano ideologi e psicologi; sia i dissensi politici interni all'emigrazione, sia i momenti di crisi personale dei fuoriusciti erano sfruttati dall'Ovra per drenare risorse umane. Un antifascista in rotta col partito d'appartenenza, un esule in pena per la moglie rimasta in Italia: altrettanti uomini fragili, facili obiettivi per la "campagna acquisti" del regime.
La via italiana al totalitarismo venne lastricata con le lacrime di centinaia di antifascisti che il regime seppe trasformare in confidenti: ecco un'acquisizione tra le più importanti della ricerca di Franzinelli. In effetti, chi non ricorda l'argomento impiegato per mezzo secolo dagli Indro Montanelli di turno, secondo cui il fascismo fu una dittatura all'acqua di rose perché in vent'anni non produsse che una manciata di condannati a morte? Insidiosamente riciclato - dietro il velo di un gergo accademico - nell'opus magnum di Renzo De Felice, l'argomento vacilla sotto il peso di altre cifre (130.000 "sovversivi" schedati nel Casellario politico centrale) e soprattutto di altri parametri. L'efficienza di un regime totalitario non si valuta unicamente col misurino del sangue. Delazioni, finti attentati, mazzette, lettere intercettate, false notizie, violenze psicologiche su mogli e figli degli esuli: quello ricostruito da Franzinelli è uno spettacolo di sapiente tecnica poliziesca, ma di infinito squallore morale.
Fra il 1928 e il 1930, collaborò con l'Ovra anche un militante comunista destinato alla fama come romanziere antifascista: l'abruzzese Secondino Tranquilli, meglio noto come Ignazio Silone. Rifuggendo dallo scandalismo a buon mercato, Franzinelli contestualizza il "caso Silone" nell'ambito politico e psicologico di una crisi esistenziale che avrebbe condotto il futuro autore di Fontamara alla rottura con il Partito comunista, e il fratello minore di lui alla morte come sovversivo nelle carceri fasciste. La comprensione storica della vicenda individuale di Silone molto guadagna dal venire collocata entro la cornice di una vicenda collettiva. Il fatto che un uomo integro come Silone sia stato spinto dalle circostanze a collaborare - ma senza farsi delatore - con la polizia segreta del regime risulta significativo proprio in quanto si trattò di un "caso" tutt'altro che isolato, di un destino drammaticamente condiviso.
All'inizio degli anni trenta, la rete di confidenti aveva infiltrato non soltanto il Partito socialista e Giustizia e Libertà ma lo stesso Partito comunista, la cui fama di impermeabilità Franzinelli dimostra infondata. La vittoria del sistema repressivo sull'antifascismo organizzato contribuì a estendere il mandato degli apparati segreti; oltreché di investigazione politica, la polizia di Bocchini prese a occuparsi di repressione della criminalità comune e di monitoraggio dell'opinione pubblica. Di riflesso, il secondo decennio della dittatura coincise con una mutazione genetica dei fiduciari. Diminuirono le spie di estrazione "sovversiva" (spesso operai), mentre crebbero gli informatori di provenienza apolitica: per lo più bottegai e impiegati, avvocati e giornalisti.
Aveva un passato di giornalista - e di scrittore licenzioso - la più celebre spia del regime, Dino Segre detto Pitigrilli. Muovendosi liberamente tra l'Italia e la Francia, il confidente "373" infiltrò sia gli ambienti torinesi sia quelli parigini di Giustizia e Libertà; fu al suo zelo di delatore che personaggi quali Carlo Levi, Massimo Mila e Vittorio Foa dovettero gli anni da loro trascorsi al confino o nelle galere fasciste. Anche la ricostruzione di questo profilo individuale guadagna a essere inserita entro un ritratto di gruppo. Constatare come Pitigrilli sia stato uno dei tanti giornalisti al soldo dell'Ovra rimanda infatti a un'evidenza storica generale: quella di un regime che non soltanto la parlantina di Mussolini e dei gerarchi, ma anche i rapporti dei fiduciari di polizia contribuivano a fondare sull'affabulazione.
Tuttavia, il lettore potrà finire col rimpiangere che Franzinelli abbia dedicato a Pitigrilli (e a Silone) appena poche pagine, annegate nel mare magnum del discorso generale. Il rischio è quello di "togliere profondità prospettica alle biografie personali", commettendo proprio lo sbaglio rimproverato dall'autore ai precedenti studiosi dell'Ovra. Se facilmente si perdona a uno storico come Franzinelli la rinuncia ad avventurarsi nella rilettura di romanzi quali Fontamara e Pane e vino per riscontrarvi i segni del tormentato percorso di Silone, meno condivisibile appare la scelta di liquidare i precedenti familiari, letterari e giudiziari di Pitigrilli in una nota a piè di pagina. Poiché il mistero Pitigrilli è quello della chemistry che fece di un giovane di talento un genio del male fascista.
Figlio naturale di una coppia mista (ebreo benestante il padre, cattolica povera la madre), Dino Segre aveva talmente sofferto della propria condizione di mezzosangue da rovesciarla in luciferino privilegio: si era dato per mito quello del bastardo, eslege e dissoluto. I suoi romanzi degli anni venti avevano veicolato un'ideologia cinica più ancora che un'etica lasciva. La passione del gioco d'azzardo aveva fatto il resto, fino a rendergli naturalmente gradite la protezione e la paga dell'Ovra. Intelligente per natura, bastardo per vocazione, immorale per programma, socievole per calcolo, Pitigrilli disponeva di tutti i requisiti per riuscire egregiamente come spia. In compenso, altri fattori avrebbero potuto fare di lui un antifascista a tutto tondo: l'ambiente dell'intellighenzia torinese nel quale era cresciuto, i contrasti con la nomenklatura fascista locale, le noie giudiziarie in cui era incorso come scrittore osceno, la fama cittadina di denigratore del regime. Al pari di tante altre spie, Pitigrilli aveva maggiori affinità con le sue vittime che con i suoi padroni.
Opportunamente, Franzinelli segue i confidenti dell'Ovra fin dopo la caduta del fascismo e la Liberazione. Per un Pitigrilli emigrato in America Latina, quante spie del regime scagionate dall'Italia di Scelba, e quanti capi dell'Ovra riciclati in funzione anticomunista all'alba della guerra fredda... Sicché questo studio meritorio sulla polizia politica fascista diventa - nell'ultima parte - un contributo prezioso sul tema della "continuità dello Stato", sui nessi tra gli apparati segreti del Ventennio e quelli della Repubblica.
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