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Il libro poteva essere intitolato: "La terza cultura - sette anni dopo". L'opera di Benkirane si presenta infatti come una sorta di "edizione aggiornata" della raccolta di scritti curata da John Brockman nel 1995. Del libro di Brockman (edito in Italia da Garzanti), Benkirane mantiene la curiosità scientifica, lo stile divulgativo ma non superficiale, l'impostazione generale. A differenza di Brockman, la cui rassegna era "USA-centrica" in modo imbarazzante, Benkirane presta una maggiore attenzione agli autori europei, senza tuttavia ignorare i principali ricercatori statunitensi (tra cui alcuni già presenti nella rassegna di Brockman, per esempio Langton, Goodwin e Kauffman). Cosa è cambiato nei sette anni (12 per il lettore italiano) trascorsi tra "La terza cultura" e "La teoria della complessità"? Sicuramente molte idee si sono precisate e sviluppate, gli strumenti di ricerca si sono affinati; tuttavia i limiti della scienza della complessità si sono fatti più evidenti e per certi versi preoccupanti. La teoria della complessità, che nel 1995 sembrava il terreno su cui stavano per convergere definitivamente fisica, biologia, scienze cognitive e intelligenza artificiale, si è frammentata in mille sottoteorie a tratti assai divergenti l'una dall'altra. L'entusiasmo interdisciplinare dei primi anni ha lasciato il posto a una maggiore cautela multidisciplinare; le metafore ardite hanno ceduto il passo a più prudenti "distinguo". Troviamo così un Deneubourg che invita a non vedere l'autorganizzazione dappertutto, un Varela che si rifiuta di estendere i modelli biologici a livello sociale, un Prigogine che sottolinea più volte che "non abbiamo afferrato il meccanismo della complessità se non in casi molto semplici di fisica o di chimica" (p.36). Nel loro insieme, le interviste di Benkirane offrono ai non specialisti una visione della teoria della complessità più disincantata rispetto al passato, ma epistemologicamente più matura e quindi forse ancora più interessante.
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