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Recensione dell'autore. Secondo l'approccio contenuto nel libro, ognuno di noi "sa" molte più cose di quante non ne sappia ufficialmente circa lo stato dei propri rapporti con il mondo. Ognuno di noi per esempio sa quanto il proprio stato di benessere possa essere dovuto al fatto di rimandare nel sottofondo della coscienza delle esperienze negative. Ed ognuno di noi è in grado di distignuere tale benessere di facciata dal più sostanziale benessere che proviene dalla sensazione di aver trovato delle occasioni per portare in chiaro il proprio dissenso e per argomentarlo in modo approfondito e convincente. Succede infatti abbastanza spesso che il nostro stato di benessere derivi dalla nostra adesione a dei banali luoghi comuni che ci forniscono un rapido senso di appartenenza e ci aiutano a stabilizzare le nostre relazioni interpersonli, rimandando ad un secondo momento l'espressione di sensazioni di dissenso. Questo naturalmente è un fatto fisiologico, patologico è il fatto di non sapere minimamente che tutti noi conserviamo il bisogno di trovare alcuni momenti nella nostra vita in cui si possa ripristinare un certo grado di sincerità e dare ascolto ai nostri ed altrui modi personali di sentire. Il libro è in questo consonante con ciò che già diceva Levy Strauss nel 1969: “Il valore dell’etnologia sta nell’offrire all’uomo una moltitudine di specchi sui quali apprendere a riconoscere il vero volto delle sue credenze e delle sue regole. Regole e credenze che egli percepisce in modo deformato dalla sua educazione e dai suoi pregiudizi. Anche noi abbiamo i nostri miti che tuttavia non riconosciamo come tali. Questi miti da noi si chiamano conoscenze storiche, ideologie politiche, culto dell’arte. Viviamo di questi miti in modo altrettanto intenso di quello in cui i selvaggi della Melanesia vivono i loro miti. La sola saggezza alla quale l’uomo moderno possa appigliarsi è quella che gli proviene dal saperli riconoscere come tali e diventare consapevole che è impossibile liberarsene.”
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