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Accedere al laboratorio filosofico di Derrida – come è il caso delle nove lezioni del corso Teoria e prassi tenuto nel 1975-1976 presso l’École Normale Supérieure di Parigi – è sempre un’esperienza che provoca sentimenti ambivalenti. Da un lato, l’innegabile gioia di rintracciare i nuclei incandescenti di formazioni di pensiero in magmatica evoluzione trasformativa e dall’altro – per riprendere le parole a cui, già nelle primissime righe del testo, lo stesso Derrida fa ricorso di fronte all’enormità del tema che si trova a dover fronteggiare – «l’immensa difficoltà» a districarsi tra la proliferante e sorprendente disseminazionedi piste che, più o meno tracciate, si aprono, si perdono, si intrecciano, si cancellano, e si sovrappongono a ogni svolta della sua riflessione fino a far emettere, sia al lettore che al filosofo francese, «un sospiro di scoraggiamento».
Molteplici sono le linee di forza/frattura/fuga che, pagina dopo pagina, tracciano il testo di questo corso, pubblicato da Galilée nel 2017 e prontamente reso disponibile in italiano, nel novembre dello scorso anno, grazie alla cura di Gianfranco Dalmasso e Silvano Facioni e alla pregevole traduzione dello stesso Dalmasso e di Marco Maurizi. Quattro trecce, però, innervano l’incedere del corso in maniera più evidente di altre, costituendone una sorta di impalpabile e sfuggente architettura. Queste trecce – iper-tracce o infra-tracce in cui si annodano, forsennatamente e rizomaticamente, gli innumerevoli fili che le compongono, che le sfilano l’una nell’altra e che le fanno sfilare – sono tra loro difficilmente separabili, rendendo di fatto impossibile il compito di recensirle. Ma, nonostante tutto, «si deve fare», direbbe Derrida.
Massimo Filippi
Recensione completa su Alfabeta2
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