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Il suo ultimo romanzo “Motl Pejsse dem chassan”, rimase un frammento. Come Tewje e Mendel, anche Motl è uno ‘Schlemihl’, uno scalognato e nello stesso tempo un briccone (uno ‘Schelm’), onestamente burlone e autoironico; insomma un ‘Witzbold’ alla ricerca dell’impossibile, e anche un ‘Pechvogel’, uno sfortunato al quale nulla di buono riesce. E come Mendel prima di lui, si trasferisce in America a cercare fortuna. La sua giovanile spavalderia lo accompagna durante le avventure americane, nel nuovo continente; mentre una certa ingenua indipendenza fa di lui uno Huck Finn jiddish – ma ricordo in aggiunta che Aleykehm, in gioventù, si era dedicato alla stesura in lingua russa di un “Robinson Crusoe ebraico”, sollevando un grande vento bello e infedele, se non nello spirito di fondo, cioè in quel tanto di spensierato e avventuroso che ha reso il personaggio di Robinson per tanti bambini uno svago esistenziale totale. Qualche anno dopo, seguendo l’esempio di Abramovitsh, scrisse una parodia-antigrafo del Don Chisciotte: “Don Quixote from Mazepevke”. Un rimbalzo glorioso fra epoche diverse e differenti climi culturali, che in letteratura è sale e polvere della terra, e sapienza umoristica e, per analogia, già volgeva raffinatamente lo sguardo ai romanzi di Twain. E infatti, Sholem Aleykhem viene spesso indicato come il Mark Twain della letteratura ebraica – fino ad assomigliargli persino un poco al maestro americano del racconto di avventure, in certe sue vecchie fotografie... fini capelli ondulati con la scriminatura da una parte, rotondi occhiali con la montatura in metallo, baffi, un sorriso lieve e astuto. Il che, se per un verso ricorda gli atteggiamenti di Mark Twain, per un altro richiama alla memoria il volto ancora assorto nella preghiera e nello studio del capofamiglia, quando il sabato torna a casa dallo ‘Bethaus’, il Beit Ha-midrash, e saluta gli angeli dello Shabbat che lo hanno accompagnato e gli viene risposto: “Sholem Alejchem, la pace sia con te”.
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