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Un romanzo stupendo. Scritto in modo superbo; alcune pagine sono di una bellezza a dire poco commovente. Chapeau.
Recensioni
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CONFIANT, RAPHA‰L, La profezia delle notti, Zanzibar, 1994
CHAMOISEAU, PATRICK, Texaco, Einaudi, 1994
recensione di Oppici, P., L'Indice 1995, n. 4
Texaco è quella che noi occidentali definiamo una bidonville, sorta alla periferia di Fort-de-France, capitale della Martinica, dipartimento francese d'oltremare. Trattandosi di bidonville ci si potrebbe aspettare qualche vigorosa denuncia del "degrado" , parola oggi indispensabile per riassumere la condizione in cui deve vivere il proletariato urbano dei paesi in via di sviluppo, o indignate considerazioni sull'odioso colonialismo francese. L'intento e la poetica di Patrick Chamoiseau hanno per fortuna ben altro spessore. "Texaco", il suo romanzo più ambizioso (ha vinto nel 1992 il premio Goncourt), è il compendio di due secoli di storia della Martinica, dai tempi bui della schiavitù fino all'oggi passando attraverso l'ambigua "liberazione" del 1848, con la quale inizia per gli ex schiavi una lotta per la sopravvivenza e la dignità personale forse altrettanto dura che nel passato. "Texaco" racconta la progressiva conquista dell'Incittà, ovvero il desiderio - e la necessità - di urbanizzazione della massa dei discendenti degli schiavi che intendono sfuggire alla perdurante schiavitù della canna da zucchero. L'epopea di "Texaco" è scandita dall'evoluzione dei materiali: dai "Tempi di paglia della schiavitù" si passa ai "Tempi di legno di cassa" della prima urbanizzazione, per arrivare ai più vicini "Tempi di fibrocemento" ("'Hmm buondio signore...! il fibrocemento...', lasciare la paglia il legno di cassa, il colore uniforme della lamiera, per una casetta di cemento! 'Era l'inno collettivo'") e infine ai contemporanei "Tempi di calcestruzzo". Questa appropriazione dello spazio è organizzata secondo ritmi propri (le code per l'acqua, le formule di saluto, i diritti di passaggio, i riti della solidarietà reciproca) che creano una forma di convivenza civile, nonostante i reiterati attacchi della polizia e le periodiche distruzioni delle baracche. "L'urbanista occidentale vede in Texaco un tumore dell'ordine urbano. Gli disconosce qualunque valore architettonico o sociale. Il discorso politico a tale proposito è negatore. Evidentemente è un problema. Ma radere al suolo significa spostare altrove il problema o peggio: non considerarlo. No. Dobbiamo congedare l'Occidente e reimparare a leggere: reimparare a inventare la città. L'urbanista, qui, deve pensarsi creolo ancora prima di pensare". Questa fondamentale istanza di rivendicazione della creolità corrisponde alla salvaguardia della memoria storica e dell'identità culturale antillana, ricercata dalla giovane generazione di narratori cui appartiene Chamoiseau sulla scia dell'insegnamento di Edouard Glissant. Texaco è "monumento", "luogo di memoria" che dev'essere recuperato e non distrutto. Del resto esso corrisponde a specifiche esigenze dei suoi abitanti che rifiutano il trasferimento nelle conigliere popolari, dove non potrebbero allevare il maiale o coltivare quell'orto creolo indispensabile per la loro problematica sopravvivenza. Se "Texaco" vuole raccontare la città creola, anzi l'"Incittà", come declina il creolo rendendo percepibile il movimento di attrazione esercitato dalla realtà urbana, il romanzo creolizza a sua volta le forme della grande saga familiare, e il linguaggio; malgrado le difficoltà, la versione italiana è riuscita in gran parte a salvaguardare la ricchezza espressiva del testo. Ciononostante, "Texaco" non è un'opera riservata agli specialisti; è caratteristica della più recente narrativa antillana riuscire a coniugare con esiti assai brillanti sperimentazione e leggibilità; cosicché questo complesso romanzo della città creola è insieme anche la storia, di impianto quasi tradizionale, di una donna, l'Informatrice, e della sua lunga lotta per l'esistenza che il "tracciator di parole" Chamoiseau raccoglie e cerca di conservare attraverso la scrittura. La ricerca sulle forme e sulla lingua è una costante della giovane narrativa antillana perché proviene da un'esigenza di riconoscimento della propria identità che è solo in parte francese; ma tale ricerca è attenta a salvaguardare la comprensibilità del testo, leggibile a più livelli. Ciò è ancor più evidente nel più "facile" romanzo di Confiant che appartiene al genere delle autobiografie infantili ovvero di quelle rievocazioni dell'infanzia in cui il narratore riproduce, con effetti stranianti, la visione della realtà di un bambino filtrata dalla consapevolezza dell'adulto. Anche in questo breve romanzo, che cattura dapprima il lettore con l'esca dell'esotismo, la rivendicazione della specificità creola emerge continuamente, si è dapprima affascinati dalle lussureggianti descrizioni della natura tropicale, ma sotto la poesia si scopre gradatamente un mondo non edenico, lacerato da divisioni linguistiche e conflitti razziali. Anche se il tono resta lieve, attraverso la scoperta di Raphaël di essere 'chabin' (un negro bianco, con le efelidi e i capelli rossi), e le sue riflessioni sul colore della pelle, che può assumere nelle Antille infinite sfumature; a causa dell'incontro tra bianchi, neri e asiatici, affiora una realtà ben diversa da quella descritta negli accattivanti dépliants delle agenzie di viaggio. Pensare al problema razziale nei termini di una semplice dicotomia nero/bianco è in effetti, se riferito alle Antille, incredibilmente riduttivo; ma ciò che costituisce un problema, la conciliazione di tante diversità, può anche essere interpretato come una ricchezza culturale straordinaria. Il dibattito sulla moderna società multietnica può scoprire nella creolità rivendicata da questi romanzi degli stimoli molto interessanti come scrive spiritosamente Chamoiseau, le donne antillane possono avere figli di tutti i colori, eccetto blu e verde.
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