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Il titolo assegnato a questa plaquette intende forse legittimare o nobilitare l'inconsistente fissità, formale e concettuale, dei versi proposti alla lettura - o alla recitazione in pubblico, visto la loro cadenzata e ossessiva ritmicità. L'istinto di morte è quello rappresentato dalle figure che "non" animano queste poche pagine: figure statuarie, imbozzolate, cementificate in un immobilismo angosciante. Una figura seduta, una accovacciata, una che cammina stando ferma in piedi, una in ginocchio, una che scrive: tutte incenerite come da una colata lavica o da un'esplosione atomica, incapaci di azioni e reazioni. "La disposizione della figura accovacciata/ avvolta dentro il mantello/ seduta a gambe incrociate sul pavimento/ lascia pensare/ che sia la figura/ che rende gloria all'altra figura/ che è la figura che non c'è". Volutamente oscura, retoricamente oracolare, questa poesia mortuaria trova un suo contrappunto nelle fotografie allusivamente funerarie di Silvia Tripodi. Zaffarano avrebbe potuto tentare un più coraggioso salto di qualità e intensità insistendo maggiormente sulla descrizione dell'uomo potente, in cui si dovrebbe intuire l'immagine divoratrice, scaltra, manipolatoria di chi ci governa, e governandoci ci distrugge e annichilisce: invece si limita a una sorta di ripetitivi calembours linguistici che non suscitano nel lettore né emozione né ribellione: "L'uomo potente riesce a operare le sue operazioni/ con buona riuscita/ se ogni giorno/ il mondo riesce a operare le sue operazioni/ con buona riuscita/ se ogni giorno/ l'uomo potente riesce a offrire le sue offerte/ con buona riuscita"; "Gli esseri che si attacca il corpo dell'animale/ con la testa dell'uomo potente/ sono stati pensati/ per fare entrare certi elementi de il mondo/ nelle immagini dell'uomo potente". L'autore sembra insomma rincorrere l'eco scialba di datati automatismi delle avanguardie poetiche, soprattutto francesi, senza un'effettiva convinzione ideologica e abilità stilistica.
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