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bellissimo testo,da leggere pensare sentire senza forsennarsi..... vivamente consigliato
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recensione di Mancia, M., L'Indice 1994, n. 8
"Tra il dire e il fare - dice un vecchio proverbio - c'è di mezzo il mare", per indicare che molti ostacoli si frappongono fra le intenzioni (o i desideri) e la loro realizzazione. Racalbuto rovescia il proverbio e sottolinea le difficoltà che la mente umana incontra nel passare dal fare al dire, cioè nel processo trasformativo che va dalle rappresentazioni di cosa alle rappresentazioni di parola.
Ogni pagina del libro si muove in un percorso tracciato dal pensiero di Freud dove l'esperienza clinica si intreccia con l'elaborato teorico a comporre un mosaico dei più suggestivi anche se non sempre di facile lettura. Concentrandosi sul processo trasformativo dai sistemi rappresentazionali a quelli della significazione, è ovvio che l'interesse maggiore del libro sta proprio nelle pagine dedicate al pre-verbale e alla non pensabilità delle esperienze. Racalbuto non differenzia il tipo di rappresentazione che il bambino crea nel suo mondo interno nel corso dello sviluppo (ad esempio, rappresentazione sensoriale, percettiva, concettuale, semiotica, nell'accezione usata dagli psicologi dell'età evolutiva). La mia impressione è che con il termine di rappresentazione Racalbuto intenda un'area semantica molto ampia che va dalla rappresentazione di cosa a quella di parola, e che quindi includa sia i grandi sistemi rappresentazionali che quelli di significazione. In quest'area hanno un gioco fondamentale gli affetti che regolano i processi di simbolizzazione e di organizzazione del pensiero. Si capisce così perché per Racalbuto il dolore in quanto tale non sia rappresentabile e quindi non possa essere pensato, o perché, citando Green, egli scriva che "l'affetto nella crisi di angoscia prende il posto della rappresentazione" oppure affermi che "la rappresentazione è ciò che forma il contenuto concreto di un atto di pensiero".
Mi sono domandato se in realtà l'affetto nelle crisi di angoscia non impedisca la trasformazione delle rappresentazioni in un sistema di significazioni e se il dolore non possa essere pensato perché non trasformabile, anche se comunque legato a una rappresentazione. Ho il sospetto che anche Racalbuto colga la differenza fra rappresentazioni e loro trasformazioni là dove precisa che esistono esperienze che un individuo può aver vissuto ma che allo stesso tempo non hanno potuto trovare un luogo e "parole" per essere pensate come rappresentazioni verbali. Egli afferma che si tratta di esperienze non storicizzabili ma che rimangono "nello psichismo dell'individuo come inconscio impensabile in parole".
D'accordo. Ma restano come rappresentazioni relazionali cariche di affetto che non sono trasformabili in parole. Infatti io credo che senza rappresentazioni non c'è vita mentale e il disturbo affettivo e relazionale possa rendere queste rappresentazioni intrasformabili cioè inesprimibili simbolicamente in parole, ma capaci di prendere ad esempio la via del soma e manifestarsi come disturbi psicosomatici o come "alessitimia" o altre forme di non esperienza.
Racalbuto sembra muoversi in un modello pulsionale della mente dove tuttavia non c'è spazio per la pulsione di morte. Thanatos appare come secondaria "conseguenza della comune matrice libidica originaria": si tratta dunque di un'interpretazione adattativa, che pone Thanatos al servizio della vita. Viene giustamente distinta la distruttività dall'aggressività, essendo quest'ultima complementare alla libido "anch'essa concorrente alla costituzione di un flusso libido emotivo che garantisca la vita". Al contrario, la distruttività viene definita come primitiva, risultato di un "precipitato relazionale fallimentare sul piano intrapsichico... piuttosto che espressione di un istinto di morte innato". Il che è come dire secondaria. Su questa linea anche l'odio sarebbe secondario e verrebbe a indicare "l'Io immaturo di un individuo tradito nell'amore primario".
Nel capitolo dedicato alla teoria dell'analista, Racalbuto sottolinea giustamente la necessità che si riduca la distanza tra teoria e clinica e che le convinzioni dell'analista nel suo lavoro nascano dentro di lui "dalla sua esperienza di analizzando, da candidato in supervisione, dall'autoanalisi, dall'esperienza clinica con i pazienti, anche dalla sua vita di tutti i giorni". Racalbuto conclude il suo lavoro citando Modell, il quale pone gli affetti al crocevia tra fisiologia e psicologia, tra biologia e storia. L'oggetto resta corporeo nella sua essenza "conosciuto e non pensato" dunque irrappresentabile - insiste l'autore - come nucleo originario del Sé. Penso che Racalbuto voglia dire che è un oggetto non pensabile perché non significabile, cioè non trasformabile simbolicamente, anche se esiste, e non potrebbe essere altrimenti, come rappresentazione inconscia.
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