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Anno edizione: 2014
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Un poeta magnifico. Un letterato stupendo. Un grande del 900.
Uno dei più grandi scrittori del 900 italiano. Un poeta in ogni senso.
Angosciate e rabbiose, le poesie di Tommaso Landolfi “Non volano mai, non cantano mai, non corteggiano mai le grazie dell'imma¬gine e della musica”, secondo quanto scrisse Pietro Citati. Sono liriche filosofiche, intese ad aggredire i luoghi comuni, le facili consolazioni, le illusioni di riscatto morale, e rassegnate invece all’orizzonte nichilista della disperazione. Nella visione plumbea del poeta, il destino degli esseri umani viene manovrato da un demiurgo crudele e indifferente, a cui è impossibile opporre resistenza: “Ah, come non pensare ad un maligno / Fattore, a un bieco autore / Dei nostri giorni?”. La morte è quindi esito ineludibile, tradimento assoluto di ogni aspettativa di sopravvivenza individuale nell’eternità, e illusoria è persino la speranza del dissolvimento nella pace rasserenante del nulla: “O morte sempre amata / Ed in segreto sempre corteggiata, / Avvolgiti di nere bende il capo: / Tu non sei più speranza”. Lo stile utilizzato da Landolfi è evidentemente modulato su un classicismo di stampo ottocentesco, in cui Leopardi appare senz’altro come nume tutelare non solo formalmente, ma anche in quanto riferimento teorico: il suo “è funesto a chi nasce il dì natale” diventa il leitmotiv della riflessione landolfiana sulla negatività dell’esistere: “Un luttuoso cuore / È il retaggio dell’uomo /… Nasce l’uomo ai tormenti”. Tommaso Landolfi in questo suo avvicinamento alla morte fa i conti con la vanità del tutto, della scienza e della teologia, della carne e dello spirito: “Mentre non più il conoscere mi tenta / Né più l’intendere mi alletta, / Né a guardar dentro più s’accende il sangue. / Rapissi il fuoco della vita eterna / E sviscerassi l’universo, / A me che cosa ne verrebbe”. Solo stanchezza, quindi: l’amara rassegnazione e l’iroso disappunto di chi si sente tradito.
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