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Negli Anni 70 il cinema italiano produsse film violenti, cupi, quasi a voler sottolineare tutti gli aspetti più negativi che contribuirono a definirli come «anni di piombo». Senza entrare nel merito di questa definizione (la realtà che ci viene restituita dalla ricerca storica è molto meno lugubre di quella che allora fu la percezione più diffusa), è sorprendente come quei toni sinistri abbiano segnato allora non solo i film più esplicitamente politici (Vogliamo i colonnelli di Monicelli o Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri) ma anche quelli che appartenevano all'esuberante filone della commedia all'italiana (Mordi e fuggi, Un borghese piccolo, piccolo, I nuovi mostri, Caro papà). In suo bel libro - Tragedia all'italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria - Alan O' Leary fa notare infatti come di colpo i tratti vitalistici e goderecci dei film scaturiti dal boom economico precipitassero in una pessimistica amarezza, schiacciati dal peso di una società popolata dai «mostri» dell'intolleranza e dell'egoismo. In particolare, sia i film militanti che gli altri insistevano nel mostrarci una democrazia malata, uno Stato affollato di intrighi e di misteri. Il cinema è sempre un prodotto dello «spirito del tempo». Rispecchia gli umori profondi della sua epoca, ne intercetta i tic, le mode, e anche le paranoie. Ma il punto è: quella sensazione di disagio che affiora dai film, quella sfiducia nelle istituzioni democratiche, erano solo paranoie? ... Per intanto, come suggerisce O' Leary ( che cita in questo senso La seconda volta di Calopresti), è stato il cinema ad avviare una narrazione nazionale di quegli anni, dando la possibilità alle vittime di dialogare con i carnefici, aiutando quel passato a passare. Giovanni De Luna (fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 23 febbraio)
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