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recensioni di Turchetta, G. L'Indice del 2000, n. 10
Nella perfida Avvertenza premessa a Mio zio non era futurista, settimo dei dieci micro-
romanzi ("piccoli romanzi fiume", avrebbe detto Manganelli) che compongono La vita intensa di Massimo Bontempelli, il narratore dichiara senz'altro che il sottogenere ora da lui affrontato (il "romanzo storico d'ambiente letterario") "interesserà solo una scarsa parte" dei lettori, "quelli che si occupano di cose letterarie": una vera e propria "casta", che però non ci si può permettere di trascurare. Egli promette però per il futuro di pubblicare, a parziale risarcimento, anche "qualcosa di solidamente, vastamente, incontrovertibilmente analfabeta". C'è un rapporto evidente fra l'opposizione, comicamente iperbolica, "casta" / lettori "analfabeti" (che è già un ossimoro) e la più equilibrata metafora bellica che suggella un saggio di qualche anno più tardo, Analogies (1927), che sarà poi uno dei "Preamboli" a L'avventura novecentista: "Marinetti - scrive Bontempelli - ha conquistato e valorosamente tiene certe trincee avanzatissime. Dietro di esse io ho potuto cominciare a fabbricare la città dei conquistatori", dove sarebbe ormai necessario "andare ad abitare".
È impossibile non rilevare come Antonio Saccone, già autore di una fondamentale monografia sullo scrittore comasco (Massimo Bontempelli. Il mito del '900, Liguori, 1979), orienti la prospettiva del proprio lettore nel momento in cui riprende l'opposizione fra "La trincea avanzata" e "la città dei conquistatori" come titolo del volume dove ha opportunamente raccolto otto densi saggi sul futurismo, scritti in poco meno di vent'anni. Anche se solo due saggi, Il simulacro della scena e l'"industria dello spettacolo" (dedicato a Nostra Dea) e lo scritto eponimo si occupano direttamente di Bontempelli, si potrebbe dire, con appena un minimo di forzatura, che Saccone rilegge tutta la complessa vicenda del futurismo italiano sub specie bontempelliana. Questa scelta fa peraltro assumere al testo una fisionomia unitaria e una profonda coerenza argomentativa: non si tratta, insomma, di una semplice raccolta di studi diversi, ma di un libro vero.
Il sottotitolo del resto parla chiaro: Futurismo e modernità. Cercando di riassumere in poche righe un discorso sempre molto serrato e filologicamente puntuale, ma che anche non viene mai meno a un'encomiabile esigenza di limpidezza, Saccone riconosce a Marinetti tutti i possibili meriti per l'intuizione tempestiva, quasi geniale, non solo delle nuove straordinarie possibilità offerte alla letteratura e alle arti tutte dall'avvento della modernità industriale, cioè di un universo urbano e tecnologico; ma anche dell'irreversibilità di una trasformazione che è al tempo stesso sociale e antropologica. Non a caso uno dei saggi del volume, Marinetti e la distruzione dell'io, affronta direttamente il nodo cruciale dell'anti-psicologismo futurista. Saccone mette a fuoco articolatamente il carattere programmatico del rifiuto della psicologia, e il nesso fondante che lo lega alle proposte tecniche della poesia futurista. Attraverso infatti la cancellazione della mediazione dell'io, e correlativamente di tutto quanto nel linguaggio è nesso, mediazione, distacco e dunque anche raziocinio, Marinetti vuole raggiungere "la coincidenza tra parola e cosa (e dunque l'azzeramento di ogni distanza tra arte e vita)": "ne deriva un'ossessione mimetica intenzionata a ritrascrivere, attraverso l'accumulo di parole-cose, il dinamismo alogico della realtà esterna all'io".
Bontempelli invece, che, come ricorda Saccone, divenne futurista "quasi fuori tempo massimo, alla vigilia cioè del rappel à l'ordre", coglie ancora più profondamente il nesso tra modernità e sviluppo capitalistico, e dunque la necessità di "riorganizzare la produttività intellettuale in termini di professionalità modernamente avanzata". Il che significa scrivere per conquistare un pubblico, non a forza di proclami e di ipnosi pubblicitaria, ma con la capacità di comunicare. D'altro canto Bontempelli non smette mai di proporsi anche come critico, disincantato e ironico, ma non per questo meno corrosivo, delle dinamiche della modernità. Basti pensare a un dramma singolare come Nostra Dea, nel quale acutamente Saccone identifica quasi "un organico e inedito modello per l''industria' del teatro". Il personaggio di Dea ha infatti "lo statuto del moderno simulacro", perché, facendo saltare la distinzione tra apparenza e verità, "fonda il luogo in cui l'immagine non è più distinguibile dal reale".
(G.T.)
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