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Sebbene Dylan abbia vinto il Nobel per la Letteratura per i suoi meriti di cantautore, le sue canzoni sono state sempre qualcosa di più del semplice lavoro di scrittura. Una canzone non è una canzone senza melodia, armonia e voce. Ha dimostrato di nuovo la stessa cosa su Triplicate. Nonostante parecchie canzoni qui siano deliziosamente ballabili o leggere, quasi blues, la maggior parte sono delle ballad spettrali, rarefatte. In tracce come I Could Have Told You, Here’s That Rainy Day e Once Upon a Time Dylan innalza la devastazione interna a una bellezza dolorosa. Nell’originale di September of My Years, cantata da Sinatra nel ’65, l’arrangiatore Gordon Jenkins apriva con un vortice di violini, evocando un’alta marea: la band di Dylan crea la stessa corrente, con la chitarra hawaiana di Donnie Herron e il basso di Tony Garnier. Quando Dylan decise di cantare Sinatra, l’idea sembrava forzata. Ha ancora abbastanza voce? “Smooth” non è una parola che useremmo per descrivere la vocalità erosa di Dylan. Ma la gestione del fraseggio è efficace come quella di Sinatra. Triplicate si chiude con qualcosa che Sinatra cantò molti anni fa: Why Was I Born, scritta da Kern e Hammerstein nel ’29. È uno standard infuocato, un esempio del tipo di scrittura di cui Dylan si è appropriato, ponendosi delle domande esistenziali – “Why was I born? / Why am I living? / What do I get? / What am I giving?” – sul piano più personale possibile. Dylan ha spesso a che fare con la depressione e l’autocritica. Ciò che ha capito ora è il successo che si raggiunge sopravvivendo a questa oscurità. Ed è in questo, e in come lo si spiega agli altri, che si scopre la vera ragione dell’esistenza.
Recensione di Mikal Gilmore.
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