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Anno edizione: 2012
Anno edizione: 2013
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Il successo letterario di Foster Wallace ha generato una nutrita schiera di epigoni negli Stati Uniti tra gli scrittori che ambiscono a fare carriera universitaria (ovvero, che scrivono per la critica, non tanto per il pubblico, al fine di trovare lavoro come insegnante di inglese o scrittura creativa in una università del paese). Fountain, tra di essi, è tra i più dotati, sa scrivere e nelle sue pagine si trova anche un ricordo dell'ironia del grande John Barth. Il libro, una giornata nelle vita di un plotone di soldati reduce da un "victory tour" negli Stati Uniti dopo essere stato ripreso casualmente dalla televisione durante uno scontro a fuoco in Iraq, è ben congegnato, alcuni momenti (il flashback del ritorno a csa di uno dei componenti del plotone, il personaggio che dà il titolo al libro) veramente riusciti, il resto ricade nei pregi e, soprattutto, difetti di tanta letteratura americana del nuovo millennio: prolisso (400 pagine sono DAVVERO troppe), pieno di luoghi comuni su ricchi, poveri, su chi sostiene la guerra e su chi è contrario. Un libro "televisivo" (possibile infatti una riduzione cinematografica a breve)che fa rimpiangere il genio creativo dell'autore di "Infinite Jest".
Recensioni
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I giorni di gloria di Billy Lynn
Per leggere È il tuo giorno, Billy Lynn! ho impiegato tantissimo tempo. E ho sbagliato. Da quando l’ho comprato a quando l’ho iniziato sono trascorse settimane. Da ottobre a dicembre, prima di Natale. Da quando l’ho iniziato a quando l’ho finito, altrettante. Da Natale ai giorni del Super Bowl.
Ho sbagliato, dicevo, perché questo è un libro in cui l’immersione è la giusta chiave di lettura: bisogna divorare almeno trenta pagine alla volta e lasciarsi calare, come in una caduta subacquea nel blu profondo, nel più cremoso, corale e americano concetto di gloria. Il romanzo, infatti, racconta di una squadra di soldati, la Bravo, che viene accolta e celebrata in patria, l’America, dopo aver compiuto un’eroica operazione di guerra in Iraq. Un’operazione ripresa e mandata in onda da Fox News, vista e commentata dai divani di milioni di americani accomodati, in cui uno di loro, Shroom, perde la vita ma in cui, sostanzialmente, le gesta degli altri otto contendono alle scene dell’11 settembre lo scettro della spettacolarizzazione del massacro umano. Questa volta, però, dalla parte dei giusti. Adesso che la gloria li ha trovati, i soldati della Bravo girano gli Stati Uniti in quello che i media e gli organizzatori chiamano Victory Tour e stringono mani congratulanti, firmano autografi a ragazzini disabili o a petrolieri texani, si fanno inebriare dalla proposta di un adattamento hollywoodiano delle loro gesta in territorio bellico, bevono alcolici offerti e mai consolatori, pregano le preghiere dei ricchi, vanno a trovare le famiglie ancora incredule.
A raccontare i giorni del Victory Tour è Billy Lynn, soldato diciannovenne a cui si deve il merito di avere proprio l’età, l’estrazione sociale e la sensibilità giuste per capire che tutto quello che sta vivendo a casa sua è una palla clamorosa. Una bolla di retorica perfetta e ubriaca. Una gigante macchina dello spettacolo patriottico a cui quella della guerra non può che rispondere con un fioco sospiro. Billy pensa, si fa domande, elabora lo sciabordio di strette di mani e congratulazioni, la sfilata di parole sempre uguali (giustizia terrorismo guerra patria Dio coraggio sostegno libertà “ndicisettembre”), il circo delle figurine o dei primi piani a cui i soldati vengono mediaticamente ridotti, elabora tutto questo in pensieri e osservazioni di un’umanità sconcertante, interi paragrafi che rendono necessaria, come dicevo all’inizio, un’immersione totale, un tenere al di fuori tutto il resto.
Ed eccolo qui, dunque, il pregio formale e autoriale di questo lungo racconto sull’America della spettacolarizzazione: le riflessioni del suo protagonista. Semplici, pulite, lucide, umane e, infine, senza nessun’altra risposta se non una: che siano verbalizzate o solo nella mente, finite le parole, si deve tornare in guerra. Le risposte, quando il futuro è già segnato dalla probabilità della morte, sono vaporose come le domande che le hanno generate.
Il terrore del ritorno in Iraq equivale alla povertà più nera, ed è così che si sente ora, povero, come un bambino cencioso senzatetto catapultato all’improvviso in mezzo ai milionari. La paura della morte è la favela dell’animo umano, esserne liberi è l’equivalente psicologico dell’ereditare cento milioni di dollari. Ecco cosa invidia a questa gente, il lusso di considerare il terrorismo un argomento di conversazione, e in questo preciso momento si sente così sfigato che potrebbe scoppiare a piangere.
Eppure Billy Lynn è un romanzo così lontano dall’essere cupo che la definizione che più spesso ricorre nelle recensioni italiane e americane è “esilarante”. Lo è, esilarante, quando Billy, ad esempio, si masturba nella sua camera di quand’era ragazzino, o quando si innamora di Faison la cheerleader, o quando si trova immobilizzato dalla presenza così vicina e divina di Beyoncé. Od ogni volta, ancora, in cui la trama delle vicende di Billy si annoda a quella della partita di football dei Cowboys Dallas, l’altra grande protagonista – a mio parere – del libro. Una scena su tutte: l’inno nazionale a cui la Bravo sta per assistere in qualità di ospite d’onore della partita, quella più attesa dopo il Super Bowl, quella del giorno del Ringraziamento. Partono le note, parte il canto della cantante in mezzo al campo e Billy, sull’attenti insieme agli altri commilitoni sugli spalti, dentro di sé, per ogni strofa o intonazione, compone un contrappunto ironico di libere associazioni che fa veramente ridere forte.
È chiaro che la crescente spettacolarizzazione della partita fa da contraltare a quella della guerra e a quella, ancora più macchinosa se si può, dello spettacolo in sé e per sé, il film sulle gesta della Bravo, la cui realizzazione va definendosi proprio nei minuti di gioco. I tre piani della storia sono i tre capisaldi d’America, quelli a cui tutta la sua realtà si può ridurre: football, guerra e cinema.
Dove poteva fiorire il football se non in America, l’America con i suoi milioni di ettari fertili di granturco, soia e frumento, i suoi laghi di latte, le sue valanghe di frutta e verdura dodici mesi l’anno, per non parlare poi delle carni, quella straordinaria catena di montaggio di bovini, pollame, pesce e suini messi all’ingrasso, arricchiti di vitamine e ipodermicamente immunizzati, fabbriche a pieno regime per la velocissima produzione di proteine, tutto un complesso che è andato a culminare, dopo parecchie generazioni di nutrimento epico, in questa progenie di esseri umani a grandezza industriale? Solo l’America poteva produrre simili giganti.
I giganti che mentre io finivo il libro si giocavano davvero la gloria durante il Super Bowl di New York, quello tra i Seahawks di Seattle e i Broncos di Denver. Dato il mio amore incontenibile per la città del grunge, io tifavo per i primi (che alla fine hanno stravinto), ma soprattutto mi gongolavo di fronte a tanto entertainment messo insieme e arricchivo la mia lettura di esilaranti – anche loro – rimandi di realtà. L’edizione originale del libro di Ben Fountain si intitola Billy Lynn’s Long Halftime Walk, dove halftime è accenno, se non proprio diretto richiamo, all’intervallo delle grandi partite di football, il momento in cui è norma che esploda la massima espressione della pop culture made in USA. Billy e la squadra sono sul palco a prender parte a questa esplosione, insieme a Beyoncé e alle Destiny’s Child. Loro, eroi di guerra, su quel palco però sono ridicoli, accecati, buffi, irrigiditi in posizione da duri, immobilizzati dalla paura che devono mascherare e inebetiti dalla bellezza tutta caramello delle tre show girl. Li si può quasi intravedere, lì dietro con la faccia sudata e il cuore a mille.
Non è stato poi tanto male metterci così tanto a finire questo libro. Diversamente, mi sarei persa tutta la sua realtà.
Buona lettura e godetevi lo spettacolo.
Recensione di Marta Ciccolari Micaldi
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