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L’uomo che scrive “sono fuori / da tutto” (TP, II, p. 1147) è lo stesso di cui molti si sono considerati orfani o vedovi/e, post mortem? È certamente lo stesso “automa ispirato e instancabile” dello Hobby del sonetto (TP, II, p. 1170), che ripete l’“automa del mio amore” dell’Usignolo della Chiesa Cattolica (TP, I, p. 490). E basterebbe uno solo degli “appunti” di Outis – “Non ho banda, Montale, sono solo” (TP, II, p. 1303) – per poter dire che i vedovi e le vedove sono tali anche prima del 2 novembre 1975. Che avesse organizzato o no la propria uscita dal secolo, Pasolini aveva sicuramente posto l’attenzione su fatti non banali: la propria artisticità e la dialettica dannazione-salvezza, l’“amore materno, straziante” (TP, I, p. 436) e il desiderio che il seme, rompendosi, generasse. Qualunque sia stata la natura della morte di Pasolini, una cosa è certa: l’Ambiguo (TP, II, p. 75) voleva, o avrebbe voluto, dare frutto, morendo, o rimpiangeva di non poterlo fare. Questa religio non incontra che incidentalmente gli altri, intellettuali o proletari: se li incontra, è sempre dall’interno di una solitudine troppo speciale per essere contraddetta dalla compagnia di uomini e donne. Infatti “come tutte le persone non normali e quindi non sante, / non lasciò rimpianto dietro di sé; né ebbe lacrime. / Piansero solo disperatamente sua madre, Graziella e Ninetto” (TP, II, p. 234). In questa ricostruzione non c’è traccia di amici, come se la non santità di Pasolini ne impedisse anche l’esistenza agli occhi del responsabile: mentre il compagno e le due familiari conviventi – il focolare romano – sono tutto. Gli amici sono puri e buoni, ma sono amici: possono andarsene, e la loro mobilità, che è parte dello statuto dell’amicizia, impedisce di dedicare alla vita di un altro ogni istante della propria.
FINALMENTEEEEE!!!! (Un grazie infinito a Walter Siti!)
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