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Un romanzo di quelli soliti di Niffoi. La solita Sardegna alla Niffoi. Non male, peraltro, con le solite caratteristiche che lo hanno fatto apprezzare in Italia e fuori. Non peggio e non meglio degli altri. Ma, per la serie com'è strano il mondo, se fosse stato pubblicato da Adelphi avrebbe avuto tutt'altra accoglienza. Sì, il mondo è strano.
modesto, stile scadente, sconsigliato
Non male quest'ultimo libro.Personalmente però ho ancora in mente il suo capolavoro d'esordio, Il viaggio degli inganni, che resta a tutt'oggi insuperabile.
Recensioni
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Pirocha, piccola località dell'isola di Degnasàr, non gode di una sola goccia d'acqua da molti mesi. D'improvviso, però, questo mondo arcaico e decomposto, tra nera carnalità e sopraffazione, dove i mari evaporano e le bestie muoiono al sole, si vede sommerso da una pioggia solo all'apparenza provvidenziale. In realtà un diluvio, con tutta la sua forza devastatrice, che lascerà solo poche superstiti, cinque donne, che dopo un primo periodo di idilliaca solitudine conosceranno l'ansia della fine della specie. La trama appena riassunta non va attribuita a una datata post-catastrophe novel di stampo orwelliano, ma a L'ultimo inverno di Salvatore Niffoi. Si tratta dell'ultimo dei cinque titoli previsti dal contratto che legava lo scrittore di Orani alla casa editrice sarda Il Maestrale. Non appare scontato, né frutto di eccessivo zelo, sottolineare l'antefatto editoriale di questo romanzo, che nuovo non è, come anche ricordare ai lettori che Niffoi esordì nel 1999 proprio con la casa editrice isolana, vista la leggenda, che lo stesso scrittore ha in tempi recenti rinforzato in un'intervista rilasciata a un noto programma televisivo, di un suo folgorante esordio con la raffinata casa editrice Adelphi. Il romanzo si chiamava Il viaggio degli inganni. Che era stato preceduto, però, da Collodoro, autoprodotto nel 1997 e stampato dall'editore Solinas di Nuoro con una veste grafica che ricorda i vecchi sussidiari delle scuole elementari. L'ultimo inverno giaceva insomma inedito, nei cassetti del Maestrale, fino a ora, per ragioni che non spetta certo a noi giudicare.
A ogni modo: che la trama e la struttura del romanzo non siano tra le più originali è fatto reso ancor più evidente dalle epigrafi scelte dallo stesso Niffoi. Per introdurre le tristi vicende di Filò, Frisia, Esdra, Nina e Marta, lo scrittore si serve infatti di due grandi autori che, accostati al proprio lavoro, anziché nobilitarlo, ne segnano inesorabilmente la distanza stilistica e la penosa ricerca di emulazione. La prima è tratta da Pedro Pàramo (1955) di Juan Rulfo, una storia senza date e senza eroi in cui si intrecciano, in un tempo immobile, la vita e la morte. A questo romanzo Niffoi si ispira non solo per le atmosfere e per l'immane violenza che ne traspira. Il personaggio di Cricheddu, unico uomo a salvarsi dalla catastrofe, sorta di Adamo destinato alla procreazione di una nuova specie, che si rivelerà però impotente con estremo dolore delle cinque Eva, sembra quasi un clone, per rimanere in clima di science fiction, di Juan Preciado, figlio rinnegato di Pedro Pàramo e protagonista del romanzo di Rulfo. Anch'egli orfano alla ricerca delle proprie origini, profilo tinto di violenza. A fargli da sfondo Comala, paese deserto, e le storie dei suoi abitanti: passioni mute e ossessive, sacerdoti che non possono più dare né ricevere assoluzioni, fanciulle prodighe di virtù, ma incapaci di redimere l'antieroe.
La seconda epigrafe è tratta invece da Assalonne, Assalonne! di William Faulkner (1936), romanzo anch'esso abitato da personaggi violenti, distrutti dall'alcool e dalle ragioni dell'odio. In Faulkner, come nel Juan Rulfo di Pedro Paramo, sono le storie dei personaggi a scandire i ritmi narrativi. Niffoi prova a fare lo stesso. Il risultato è però assai lontano dalle altezze narrative di Rulfo e dalla preoccupazione tutta faulkneriana di eguagliare i procedimenti verbali alle passioni e le fatiche del personaggio uomo.
Se la struttura del romanzo e la sua trama non sono delle più originali, a peggiorare notevolmente le cose è senz'altro la lingua, o meglio, il guazzabuglio linguistico che Niffoi adopera. Si è già scritto dello stile linguistico di Niffoi, della "retorica del sublime basso", della sua lingua vernacolare falsa che restituisce l'immagine da cartolina anticata, del suo caricaturale attaccamento alla Sardegna e alle tradizioni locali. La Sardegna di Niffoi è mera merce di scambio. Non vogliamo togliere la lingua sarda a Niffoi, "cosa che ha succhiato col primo colostro", come ha proclamato indignato sull'"Unione sarda" del 12 Settembre 2006. Il problema è che non è sarda la lingua che Niffoi utilizza. Solo alcune interiezioni, per giunta volgari, mescolate a fastidiose e copiose onomatopee, lirismi che vorrebbero essere ungarettiani e citazioni del caro De Andrè, neologismi disparati di vaga ascendenza gaddiana, un utilizzo umiliante di termini come "colostro", "mestruazioni" e "gravidanza" non fanno una lingua. Tanto meno quella sarda.
Cristina Cossu
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