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Un pittore di ex voto senza un braccio, i bombardamenti americani nella Seconda Guerra Mondiale, un bambino graziato dalla Madonna. L’ultimo paese di Federico Manzone (Canicola, pp. 136) è un riuscito miscuglio di neorealismo e pensiero magico che intreccia problemi e speranze del Sud Italia. È la storia di un reietto e un miracolato: un pittore pieno di debiti e un bambino che lo teme, ma vorrebbe essere come lui; una vicenda quotidiana che scorre vicina a una grande festa di piazza, per qualcuno l’occasione perfetta per la fuga.
L’autore cuneese ha basato L’ultimo paese sul rapporto tra i pesanti tratti a matita e le sfumature grigiastre con cui traccia volti umani consumati dal lavoro, la miseria e le ambizioni. Al centro di tutto c’è una tragedia infantile: da una parte, Vittorio e il suo braccio perso a causa della guerra, quando era ancora in fasce; dall’altro, il piccolo Mimino, che ha evitato una sorte simile grazie alla mano di Dio. Un intervento divino solo presunto, ovviamente, che però non gli evita di essere osannato in famiglia come un miracolato. Una convinzione che viene rotta dal contatto con l’artista, al quale la vita non ha sorriso e quindi, dice il popolo, è malvisto da Dio. Porta iella. La tensione tra i due personaggi accompagna il lettore nel corso della storia, proprio davanti al destino che Dio, la Madonna o semplicemente il fato hanno in serbo per loro.
Voto 2/5
Recensione di Pietro Minto
Federico Manzone è nato a Cuneo e vive a Bologna, ma ha scelto di ambientare il suo primo fumetto lungo al Sud, o per meglio dire in quel Meridione postbellico ma ancora preindustriale che tanto peso ha esercitato nell'immaginario “popolare” italiano. Ecco, da questa scelta apparentemente di contorno o tuttalpiù funzionale ai semplici fini della narrazione, deriva buona parte dell'interesse di L'ultimo paese – o se non altro dei ragionamenti che un fumetto del genere può sollevare.
Il graphic novel d'esordio di Manzone racconta la storia di “un uomo senza un braccio in un paese di braccianti”: il protagonista è “il monco” Vittorio, che si guadagna da vivere dipingendo ex voto per i suoi compaesani; al suo fianco troviamo “la creatura” (cioè il bambino) Mimino, che è anche un miracolato nel senso che vedremo poi. Il luogo che abitano è uno squallido, misero, piccolo centro di campagna battuto da un sole che tutto acceca: siamo come detto nel Sud Italia degli anni 50 (più o meno) e messa in questi termini il pensiero non può che andare alla grande epopea neorealista; ma in realtà siamo più vicini a quella corrente etnografica che va dall'Ernesto De Martino di Sud e Magia al documentarismo dei vari Luigi Di Gianni, Gianfranco Mingozzi e Vittorio De Seta, al cui I dimenticati del 1959 il fumetto si ispira.
Visti i riferimenti, avrete insomma capito che il Sud arcaico di Manzone non è roba da agiografie folk e pittoreschi squarci contadini: semmai siamo in una di quelle lande in cui il sole non si limita a spaccare le pietre ma a deformare le memorie, una terra dove – per dirla col sopracitato Mingozzi – “scricchiola e si corrode ogni pietra da secoli”, popolata sì da contadini ma anche da santi, da crocifissi appesi ai muri, da superstizioni, da una religiosità opprimente e morbosa, da apparizioni magiche, da fantasmi il cui ricordo è seppellito sotto macigni arsi da una calura eterna. La trama di L'ultimo paese è in fondo “povera” e non molto diversa da quella di tanti altri diseredati in salsa verista: ma è questo secondo piano di lettura in cui si confondono visioni mistiche, riti arcani e misteri dal vago retrogusto pagano a farla lentamente scivolare nell'allucinazione. Per dirla con una delle tavole conclusive, quello di L'ultimo paese è un mondo in cui “tutto succede per la prima volta, in un modo eterno”.
Anche il tratto di Manzone restituisce questa tensione tra racconto dal vero e straripamento onirico: il crudo bianco e nero delle matite evoca i panorami scabri del cinema italiano postbellico, e viene facile da collegarlo all'esperienza dell'autore nel campo del graphic journalism; al tempo stesso, le sbavature a mano e i contorni sfumati dei carboncini lasciano come presagire un “oltre” latente che pare incombere da un non meglio identificato altrove: che sia l'eclissi che a un certo punto sembra far precipitare il tutto?
Nonostante Manzone vi abbia lavorato per anni, L'ultimo paese non è un esordio particolarmente lungo o impegnativo: sono “solo” 130 pagine, e il ritmo – per quanto non concitato – è regolare ed equilibrato. In effetti il mio personale rimpianto è che l'autore non sia spinto ancora oltre in quella che potenzialmente poteva essere una straniante novella di improbabile “psichedelia neorelista”, qualcosa come un Southern Gothic all'italiana, coi braccianti e le sagre dedicate alla madonna di mezzo. Su un editore come Canicola poi, un lavoro del genere sarebbe stato benissimo. Sia perché Canicola è la principale casa del fumetto “altro” di casa nostra, sia perché insomma, pensateci: con quel nome...
Recensione di Valerio Mattioli
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