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Triste ed intensa fotografia del mondo rurale cinese, piacevole ed interessante
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recensione di Masi, E., L'Indice 1997, n. 6
"Realismo magico" è il nome di una collezione dove si pubblicano racconti di Mo Yan. L'espressione va intesa come un richiamo alla letteratura latinoamericana, piuttosto che alla formula originaria del nostro Bontempelli, quasi certamente ignota in Cina; e si adatta più alla serie di romanzi brevi dal titolo "Sorgo rosso" (Theoria,1994; cfr. "L'Indice", 1995, n. 1) che non ai racconti qui tradotti. In implicita polemica col gran numero di scrittori cinesi che si abbandonano a lamentare le proprie sofferenze (già dagli anni venti, e con rinnovato vigore negli ottanta), nella prefazione a un'altra sua raccolta Mo Yan dichiara di voler rappresentare le sofferenze del popolo. Egli è pure fra i promotori dell'indirizzo detto "ritorno alle radici" - nella specie, quelle sue infantili e contadine. Il sostrato è populistico, e nello stesso tempo il populismo è alterato nella scrittura allucinata e visionaria, e per la presenza predominante del soggetto-autore. (I racconti appartengono a periodi diversi; ma la duplicità si avverte anche all'interno del medesimo testo). D'altra parte, la rappresentazione delle "sofferenze del popolo" richiama spesso i veristi europei di fine Ottocento e inizio Novecento, da Zola a Verga. Gli spazi soffocanti delle fabbriche e delle città al tempo della rivoluzione industriale possono restare tali anche in luoghi luminosi e aperti (perfino il mare, in alcuni passi de "I Malavoglia"). Vedi "Il vecchio fucile, Il cane e l'altalena, Esplosioni". È la stessa oscurità cieca senza storia, quotidianità immutabile come una prigione. La "naturalità" umano-animalesca, che si pretende universale e positiva, è percepita di fatto come miseria, volgarità e bruttura. Quanto più l'autore si identifica con l'io narrante, tanto meno l'autocolpevolizzazione implicita o esplicita nei confronti dei familiari contadini cancella la distanza e il prepotente disgusto - appena attenuati da momenti di residua ideologia populista. Vedi Il cane e l'altalena, Esplosioni. L'invincibile disperato distacco dalle "radici", nello scrittore suo malgrado colto e cittadino (come da millenni sono i letterati, da qualunque luogo o famiglia provengano), si tramuta in disperazione dell'oggetto rappresentato - il mondo povero contadino. Specchio dello sguardo di chi scrive, è privo di coscienza autonoma nei protagonisti.
Qualcosa, nella lettura, provoca a un tempo attrazione e repulsione. L'umanità partecipe alle sofferenze degli umili si rovescia in gusto sadico. Il controcanto alla miseria quotidiana è il sentimento forte della natura animal-vegetale e del paesaggio, pervasiva immagine onirica, rovescio irreale della realtà. Il sole è rosso come il sangue, la terra le piante il cielo hanno colori eccessivi e innaturali. Si tratti di animali o di esseri umani, la loro dimensione magico-barbarica è l'alterità del sogno: "L'uomo che allevava i gatti"; la volpe irraggiungibile in "Esplosioni" non è simbolo di alternativa, fosse pure immaginaria. Allusione o miraggio, la "natura" non arriva a offrire consolazione né a proporre conflitto - assente la pura gioia che anima il dolore della condizione umana anche la più miserabile (quello che, fra i grandi, ci ha detto Tolstoj, o Rossellini fra i meno grandi). Tutt'al più è parabola ("Il tornado", "Musica popolare"): dove la "non riconciliazione" è meno marcata, si torna al populismo - forse con meno estrema sincerità.
Il mondo-come-sogno, l'estraniazione irrimediabile dal contesto (dalla società, dalla famiglia: dall'esistenza) acquistano forza tragica negli occhi del bambino: "Il fiume inaridito", "La colpa". Oltre il ritorno al colpevole orgoglio dell'"intelligencija", e alla destituzione delle classi subalterne (il "riflusso" postrivoluzionario), nella radice dell'infanzia l'alienazione si rappresenta come un assoluto della condizione umana, un dato esistenziale estremo. L'ottimismo della volontà ci proibisce di condividere questa oltranza. Ma la verità che l'autore impone, fino all'intollerabile, è quella di una società feroce, in condizioni apparentemente disperate.
La prosa di Mo Yan è "difficile", non tanto per chi legge quanto per chi deve tradurre. Maria Rita Masci, Danièle Turc-Crisà e gli altri traduttori hanno compiuto un vero "tour de force", per lo più con risultati encomiabili. Credo siano riusciti a trasmettere anche quella nostalgia del testo originale che è la qualità e il tormento di ogni buona traduzione. Un lavoro così impegnato non meritava l'implicito disprezzo per la "merce" offerta, da parte di una casa editrice che si fregia di un grande nome: sulla copertina, per una serie di racconti dove sono protagonisti bambini poveri di una periferica campagna cinese, la bella foto di due elegantissime giapponesine in kimono.
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