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L'ascesa di un'epoca fra le più alte e decisive nella storia umana vista fra lunghi strascichi ancora pregni di medioevo severo e un vento di sfolgorio e di ricchezza raro e irripetibile. Una convivenza di genio prodigioso e nefandezza estrema, trame terribili ordite in qualche stanza principesca o cardinalizia mentre in quella accanto nascevano tele o versi di meravigliosa grandezza. Ritratti di un potere anche fragile, di una conservazione oscura che a prezzi serissimi difende i suoi dettami, amori e tradimenti sotto l'eterna illeggibile coltre dell'animo umano, manchevole e somma insieme. Bellissimo il saggio sui condottieri, figure capaci di fedeltà ineguagliate e voltafaccia paurosi; splendide le pagine sui mercanti e sui filosofi, ma ogni passaggio nel volume è come una luce di dipinto che mostra bene e male, fortune e cadute, risorse e guasti di un periodo storico immenso. Le Corti italiane, viste come il veleno incarnato dell'adulazione e della calunnia, ma anche, tanto per divertirci, la nascita della forchetta come della compagnia di Gesù, o saponi e dentifrici che fanno la loro comparsa accanto alla scuola di Atene o alla parola di Giordano Bruno. Usanze, stili, doppiezze e macchiavellismi in un saggio che condensa in sè il solfeggio mirabile dei fasti più sfolgoranti con la traccia di morte di vendette e saccheggi. Sguardo su una civiltà che ha rivoluzionato il mondo, ardore e miseria dell'essere ambizioso, sia esso l'uomo con la tiara che nomina porporati parenti appena quindicenni o quello col mantello ducale che assalta mura nemiche. Libro stupendo che apre la mente a rivoli di curiosità mai interrotti, e che lascia nel ricordo un senso di felicità e di paura, di stupore e pienezza che coinvolgono oltre ogni sentimento critico.
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1988)
recensione di Bolzoni, L., L'Indice 1989, n. 5
Sulla scia del successo de "L'uomo medievale", Laterza presenta "L'uomo del Rinascimento", coordinato da Eugenio Garin, e preannuncia "L'uomo, greco" e "L'uomo romano". Sono libri cui collaborano studiosi di grande valore, ma l'impressione di fondo resta quella di un'operazione editoriale che punta sulla suggestione del "grandi temi"; se si guarda poi ai saggi, ci si trova di fronte non solo, come è ovvio, alla diversa qualità dei contributi, ma anche a una sostanziale frammentazione di approcci e di punti di vista. Questa è del resto la situazione attuale degli studi, e non basta a ricomporla l'idea centrale della serie laterziana, che è quella di misurarsi con i diversi 'tipi', con le diverse, concrete figure umane che caratterizzano i grandi periodi.
I 'tipi' che il libro ci presenta sono nove, "ma il numero nove non ha nessun significato esoterico!", come avverte Garin nell'introduzione: avvertenza opportuna, in un libro in cui la magia rivendica giustamente il suo ruolo, e in un momento in cui le dieci Sephirot della Cabala sono usate da Eco come modello per i capitoli del suo romanzo. In realtà anche qui la scansione è basata sul dieci: l'introduzione di Garin non si aggiunge semplicemente ai saggi, ma cerca di definirne alcune coordinate generali, pur sottolineando la diversità dei contributi. Garin ribadisce qui, e con maggiore ampiezza nel saggio "Il filosofo e il mago", le sue tesi sul Rinascimento, elaborate nel corso di una ricerca pluridecennale e via via messe a fuoco anche per rispondere alle polemiche suscitate (basti ricordare quella con Kristeller, esemplare anche come scontro con un modo "anglosassone" di guardare al Rinascimento italiano, caratterizzato da grande diffidenza verso la "filosofia" e le grandi categorie interpretative).
Per Garin, in un arco di tempo che va da metà '300 a fine '500, si viene a creare una situazione sostanzialmente nuova, caratterizzata dal tema della rinascita, da una rinnovata fiducia nell'uomo, nelle sue capacità di costruire la vita civile, di impegnarsi nella conoscenza del mondo, di trasformare le cose. Si rompono le barriere fra le discipline, filologia e filosofia si intrecciano, l'umanesimo è referente comune sia per i filosofi che per i maestri di scuola, e le scoperte filologiche di Valla sono uno dei presupposti dell'opera di riforma intrapresa da Erasmo: per vie come queste il Rinascimento, nato in Italia, sa diffondersi in Europa; queste sono le tesi che Garin ribadisce, rispondendo, oltre che a Kristeller, a quelle "borie nazionali" che a volte accecano anche gli storici. E si sa che intorno a temi quali la continuità e discontinuità fra Medioevo e Rinascimento, valore e durata dell'uno e dell'altro, più volte in passato le discussioni si sono fatte accese: come vedremo, qualche esempio ci è dato anche da questo libro.
Nel suo saggio "Il filosofo e il mago", Garin ci presenta i personaggi (Alberti, Pico, Ficino, Valla, Erasmo, Cornelio Agrippa, Paracelso, Cardano, e così via) cui ha dedicato buona parte della sua intensa attività di studioso. Il fascino di queste pagine, mi sembra, nasce proprio di qui: dall'esigenza di scegliere e sintetizzare, imposta dalla struttura del libro, e dall'urgere dietro (e dentro) la pagina di tante letture, di tanti incontri con personaggi grandi, e anche minori e minimi. Già il titolo del saggio rivendica il ruolo della componente magica nel pensiero rinascimentale: si avverte in queste pagine, inoltre, il fascino esercitato dalla figura di Ficino, da quella sua ricerca di una medicina capace di agire sulle zone in cui corpo e psiche si incontrano. Rivendicare il ruolo della magia, d'altra parte, è per Garin funzionale alla tesi per cui il nuovo, anche in filosofia, nasce fuori dalle università, e nasce in collegamento con la "vita attiva", con la ricerca di nuove vie di intervento sulla natura e sulla vita civile.
All'insegna del revisionismo è il saggio dello storico scozzese John Law, "Il principe del Rinascimento"; gli sembrano decisamente esagerate le tesi tradizionali che sottolineano la novità della figura del principe, della sua corte, delle istituzioni statali nel Rinascimento. Law nota che la violenza e l'astuzia erano usate anche nel Medioevo, censura l'idealismo degli storici ricordando che la pura ricerca filologica veniva contaminata da interessi politici, e fa l'esempio del Valla; il gusto cinquecentesco per le insegne araldiche, per gli emblemi e le imprese, oltre che per le materie cavalleresche, è per lui un'altra prova della continuità fra il Medioevo e il Rinascimento. Direi che, pur accogliendo l'invito di Law a rivedere i miti storiografici, ci si potrebbe permettere di dargli a nostra volta un consiglio: quello di leggere l'Ariosto, nella speranza, che gli venga almeno un dubbio sul fatto che la ripresa di immagini e temi medievali non comporti di per sé alcuna novità o differenza.
Un più cauto revisionismo è quello praticato da Michael Millet nel saggio sul condottiero. La vicenda dei capitani di ventura viene ricostruita, nelle sue diverse fasi, a cominciare dalla fine del '200, con una particolare attenzione alle condizioni previste dai contratti, alla classe di origine dei capitani, ai loro rapporti con i committenti. La conclusione è che le critiche rivolte da Machiavelli alla categoria vadano prese con una certa cautela e che, in generale, "la storia dei condottieri deve essere riscritta".
Un documentatissimo quadro ci è fornito da Massimo Firpo nelle pagine dedicate al cardinale. Origini familiari, rendite, politiche, qualità, quantità e costi delle "corti" di ciascun cardinale, sono ricostruiti per un arco di tempo che comprende l'intero '500. Non mancano - ed era forse inevitabile, data la materia - ritratti a forti tinte, ma quel che domina è una ricostruzione precisa e dettagliata, in cui tuttavia non si perde di vista l'intreccio fra questioni politiche, economiche e religiose.
Il saggio di Peter Burke su "Il cortigiano" parte dall'opportunità di affrontare il tema in chiave antropologica; sulla scia soprattutto degli studi di Elias, ci si sofferma sui rituali della corte, sulla sua etichetta, sul ruolo da essa svolto nella promozione dell'autocontrollo e della "civiltà delle buone maniere".
Più severa e controllata è la scrittura del saggio di Alberto Tenenti, su "Il mercante e il banchiere". Vi si rivendica il ruolo che mercanti e banchieri hanno avuto in Europa a partire dai primi decenni del '400 fino al 1570, un ruolo autonomo nei fatti, capace di incidere sulla scienza, sulle tecniche, sulla cultura ma che resta in sordina dal punto di vista teorico. Contro una storiografia che si affida a notizie sporadiche, o si basa sui sermoni dei predicatori, Tenenti sostiene la necessità di interrogare i protagonisti. La coscienza del valore del tempo, il tentativo di controllare il rischio, l'uso massiccio di strumenti di comunicazione che cercano di dominare le distanze spaziali, appaiono come le "coordinate della psicologia collettiva" del ceto mercantile. Attraverso le vicende di alcuni singoli personaggi, si affrontano poi i problemi del parziale inserimento nei ranghi della nobiltà e dei rapporti con i governanti e con gli artisti.
Il saggio di André Chastel, "L'artista", sottolinea la dimensione tecnica, artigianale, da corporazione e da bottega, che caratterizza sostanzialmente la condizione degli artisti fra Tre e Cinquecento. Vi fa seguito un saggio di Margareth King su "La donna del Rinascimento". Qui la dimensione cronologica si amplia fino al '700; troviamo una ricca documentazione sulle condizioni delle donne nelle famiglie, nei conventi, nei luoghi di lavoro. La tesi di una profonda discriminazione nei confronti della donna ne esce indubbiamente ben dimostrata, anche se qualche irrigidimento viene dalla chiave di lettura esplicitamente scelta e dichiarata: "L'uomo del Rinascimento ha otto volti. La donna ne ha tre: Maria, Eva o amazzone: oppure, vergine, madre, vecchia".
Resta il desiderio - per questo, ma anche per altri saggi del libro - di una maggiore articolazione temporale; per esempio la King nota che l'educazione umanistica delle donne, iniziata col '400, cresce nel secolo seguente fino a decadere nel '600; c'è da chiedersi quanto su questa involuzione abbia pesato la Controriforma. Se da un lato è vero che la figura della donna nel Rinascimento è molto più compressa, meno diversificata socialmente di quella dell'uomo, dall'altro non bisogna nemmeno sottovalutare, nel '500, la presenza, nuova e importante, di donne che scrivono, di donne che fanno parte della comunità intellettuale.
Il libro si chiude con un saggio di Tzvetan Todorov su "Viaggiatori e indigeni", che ripropone in forma sintetica le tesi dello studioso sull'impatto che il Nuovo Mondo ha sulla mentalità europea. I comportamenti di Cristoforo Colombo, Amerigo Vespuci, Hernan Cortès, Bartolomeo de Las Casas sono visti come tipici delle diverse reazioni possibili: se Colombo proietta nel Nuovo Mondo tutte le attese, tutti gli schemi interpretativi propri dell'uomo medioevale occidentale, neppure il difensore degli Indios, Las Casas, appare capace di riconoscere la loro diversità, la loro specifica natura "altra".
Come si vede il libro registra una pluralità di approcci e di metodi; si potrebbe osservare che, in una carrellata come questa, sui nuovi "tipi" dell'umanità rinascimentale, si avverte la mancanza di qualche figura (quella del letterato e del poeta, ad esempio): il quadro che ne esce, tuttavia, è piuttosto ricco e variegato, utile a informare e anche a sollecitare nuove letture.
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