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Il rapporto con il presente – con questa dimensione temporale apparentemente così ovvia e rotonda – non è mai stato, nel corso della storia, né semplice né lineare. A volte si è trattato di sopportarlo, altre di sfuggirlo o di sacrificarlo, altre ancora di valorizzarlo, in qualche occasione di rianimarlo. In ogni caso, aver potuto contare su di un presente continuamente rimodellabile è ciò che ha permesso alle ombre, altrimenti enigmatiche e minacciose, del passato, del futuro e dell’eterno, di guadagnare un certo allineamento e al tempo nel suo insieme di configurarsi e scorrere. Ma cosa accade quando il presente diviene, secondo l’espressione di Joyce, un “lieve volantino accartocciato”? Come trattarlo, adesso che la sua iper-fugacità assorbe in sè ogni figura e ritmo temporale e svuota il mondo di qualunque consistenza? Forse, consegnati a vivere in questo, quasi invisibile, tempo-limite, dovremo abituarci a fare nostre e a sviluppare senza nostalgia le celebri parole di Klee: “Nel mondo terreno non mi si può afferrare perché io abito altrettanto bene tra i morti come tra i non nati”.
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