Nel suo agile e scorrevolissimo volume Renata Pepicelli, esperta di mondo femminile islamico, affronta con la necessaria apertura mentale e la dovuta profondità di indagine un tema troppo spesso banalizzato nella letteratura, nei discorsi e nell'immaginario collettivo occidentale. Intriso di una moltitudine di significati: simbolo religioso, di identità etnica, di rapporti di potere (non solo fra generi), di demarcazione sociale, di resistenza ai valori individualistici e consumistici del capitalismo avanzato, o ancora di rinnovata spiritualità in un mondo sempre più materialista, il velo islamico è l'indumento più controverso, politicizzato e strumentalizzato della storia umana. Che il corpo e la condizione della donna siano facile oggetto di strumentalizzazione a fini politici e di dominio non è certo una novità. Basti pensare, nel passato, alle terribili accuse di sacrifici di vergini, che giustificarono l'annientamento en buena conciencia degli Inca da parte dei conquistadores spagnoli e il correlativo saccheggio di metalli preziosi e perle delle nuove terre; oppure alla lotta contro il sati, pratica che imponeva alle vedove indiane di bruciarsi vive sulla pira funeraria del marito, che contribuì alla legittimazione della colonizzazione inglese dell'India. Una terra fiorente come il Bangladesh della metà del XVIII secolo fu così ridotta, nel giro di meno di un secolo, nelle condizioni di povertà estrema che oggi conosciamo, a tutto vantaggio dell'Inghilterra e delle sue industrie manifatturiere. Scomparso il sati, i "suicidi" per dote di giovani mogli morte ustionate sono però ancora oggi tristemente comuni. Nei tempi più recenti è il velo l'emblema dell'inciviltà di un popolo e il simbolo dell'oppressione della donna, in nome della cui liberazione gli occidentali acquisivano ieri la giustificazione morale a colonizzare il mondo musulmano e si propongono oggi come i salvatori delle donne afgane in un gioco di guerra che coinvolge in verità gli interessi geopolitici delle grandi potenze mondiali. Fin troppo note sono le dichiarazioni di Cherie Blair e di Laura Bush, che nel 2001, a ridosso dell'intervento armato in Afghanistan, si premuravano di far sapere come l'obiettivo dell'operazione, significativamente denominata Enduring Freedom, fosse la lotta contro il burqa e le asserite condizioni di brutale oppressione perpetrate dai talebani contro le donne. Severamente vietato nella Persia dello shah Reza Pahlavi in nome della forzata "civilizzazione" del paese, alla sua caduta imposto, però, dal regime dell'ayatollah dopo il 1979; vietato nelle università della Turchia a seguito della modernizzazione di Kemal Atatürk o a partire dal 2011 nelle scuole dell'Azerbaigian, nonostante si tratti di paesi a larga maggioranza musulmana; emblema della rivoluzione anticoloniale in Algeria, ed espressione in quel momento dei valori e della dignità del mondo arabo, ma successivamente assorbito all'interno di un conflitto sociale di gravità estrema caratterizzato da dure imposizioni; bandito oggi nelle scuole francesi e, nella sua versione integrale, anche da qualsiasi luogo pubblico tanto in Francia che in Belgio, il velo e la questione del se e quando vada o possa essere indossato sembrano prescindere dalla volontà delle dirette interessate: le donne. Sia che il copricapo sia loro imposto o vietato, le donne sono considerate meri soggetti da disciplinare, in un senso o nell'altro, quando non semplici pedine di giochi o relazioni di potere che hanno assai poco a cuore la loro presunta salvezza o liberazione. È in questo quadro che l'autrice si pone un'ineludibile domanda, cui cerca di dare risposta, senza assumere posizioni preconcette, dando voce non importa se favorevole o contraria ‒ a chi è stata finora esclusa dal dibattito che la riguarda, ossia la donna, musulmana o appartenente al mondo musulmano. È possibile, è questa la domanda, scegliere liberamente di indossare il velo, o le donne che si coprono, magari integralmente (soffrendo così il caldo, limitando il proprio udito, rendendosi impacciate nei movimenti, come dice Marnia Lazerg, in Pepicelli), sono sempre, sia pur inconsapevolmente, eterodirette e prigioniere di una cultura che le opprime? Quanto le donne occidentali che seguono diete ferree, fino ad ammalarsi di anoressia, che mettono tacchi a spillo alti dodici centimetri o che si sottopongono a invasivi interventi di cosmesi chirurgica per conformarsi ai modelli dominanti di bellezza e giovinezza eterna, sono più libere? I tacchi a spillo o la taglia 42 (o 38, oggi che per assecondare la nostra ansia di magrezza anche le taglie sono state illusoriamente modificate dalle case produttrici che vogliono vendere i propri modelli) non sono forse il nostro burqa, come dicono Camille Paglia o Fatima Mernissi? Perché per credere davvero nell'autodeterminazione della donna musulmana che sceglie di indossare il velo abbiamo bisogno di sapere che allo scopo si è opposta a padri, fratelli, mariti (e questa esigenza iperprobatoria è fatta inconsapevolmente propria perfino dall'autrice), ma non chiediamo la stessa prova di forza psicologica per credere nella libertà di scelta di una donna che si rifà il seno? Cosa nasconde la recente rinascita del velo islamico, significativamente chiamata rivoluzione velata, che prende avvio fra le studentesse del Cairo e di Alessandria d'Egitto negli anni settanta, per diffondersi in tutti i paesi a maggioranza islamica e poi in tutta Europa? Si tratta di un segno crescente di politicizzazione dell'islam oppure di un desiderio di spiritualità, di comunità, di valori che si incentrano più sui doveri che sui diritti? Il femminismo passa necessariamente per lo svelamento delle donne oppure il miglioramento della condizione femminile non ha nulla a che vedere con il mostrare o meno il proprio corpo? Possiamo, noi donne occidentali, arrogarci il diritto di monopolizzare il femminismo e quanto il modello di donna che proponiamo è davvero superiore? Per rispondere a queste e a tante altre intriganti domande Pepicelli costringe noi donne occidentali ad assumere la prospettiva delle "altre" e a osservarci partendo da un punto di vista esterno. Si tratta di un esercizio mentale che dà ottimi frutti per evitare di essenzializzare a nostro uso e consumo, come troppo a lungo abbiamo fatto nel passato, il diverso da noi e le sue pratiche. "Scrivere sul velo islamico ‒ ci dice l'autrice ‒ significa infatti scrivere anche sull'Occidente, non solo perché ormai l'Islam ne fa parte, ma perché il dibattito sul velo ci racconta, molto più di quanto si possa pensare, dell'Occidente, della sua percezione di sé e degli altri, delle sue fantasie e delle sue paure nascoste". Centrando senz'altro l'obiettivo, il ricco volumetto di Pepicelli svolge attraverso la parola scritta lo stesso ruolo sovversivo delle categorie prospettiche dominanti che, tramite le immagini, svolge l'artista di strada "Princess Hijab". Armata di uno spray nero "Princess Hijab" provocatoriamente veste, ma solo in parte, di un velo integrale il corpo delle modelle (e dei modelli) che campeggiano sui cartelloni pubblicitari nelle metropolitane di Parigi, lasciando intravvedere la loro bellezza che obbedisce a canoni stereotipati. Un bel libro, dunque, quello di Pepicelli, che va letto da donne e uomini per capire tutti insieme dove va il femminismo e che cosa davvero significhi oggi. E se l'aver in grande misura abdicato al birth power, il potere di dare alla luce dei bambini, a favore di quel che finora si è dimostrato un illusorio principio di eguaglianza totale con gli uomini, si rivelasse essere stato un tragico errore per noi donne occidentali? Elisabetta Grande
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