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In Il vento e la moto Grazia Livi si cimenta ancora una volta con il racconto breve, uno dei generi letterari a lei più congeniali, ma anche uno dei più complessi e meno frequentati nel panorama italiano contemporaneo. La raccolta ne include quattordici, di cui alcuni fugaci e intensi come folate di vento, altri più lunghi, ma non meno tesi e densi, giocati tutti sull'insidioso vincolo d'amore che lega il figlio alla madre, riflettendosi su ogni relazione a venire.
Apparentemente autonomi, i racconti assemblati in questo elegante volume, che promette "passioni, nostalgie, fughe, dolcezze" all'ombra di una maschia immagine di potenza e velocità, ruotano infatti attorno a un nucleo tematico da sempre caro all'autrice: il rapporto madre/figlio e la durissima libertà delle donne consapevoli che il femminile non può essere ingoiato dal materno.
Il funzionamento narrativo di questo caleidoscopio dei sentimenti, che con implacabile precisione registra anche le variazioni più impercettibili di umori, affetti, stati d'animo, ha la squisita e delicata ingegneria di un ordigno a orologeria racchiuso in un involucro di velluto e sigillato da un nastro colorato. La scrittura che rivela intrecci e personaggi è raffinata, melodiosa, quasi inattuale nella sua classicità, ma l'ordito è vertiginosamente attuale, come se l'autrice avesse scelto di lavorare sul montaggio ancor prima che sulla parola. Nei suoi racconti tutto è nitido, ma proprio la limpidezza rivela quel che spesso si preferisce lasciare alle nebbie dell'indicibile.
L'effetto è straniante: da un lato c'è il non tempo di una lingua alta applicata all'apparente atemporalità delle relazioni originarie (madre/figlio, uomo/donna) e alla materia "morbida" dei sentimenti e degli affetti, dall'altra una sorta di meccanismo duro, spietato, per nulla sentimentale. Sottoposti a un ironico e acuto scandaglio analitico, i fusionali racconti d'amore costruiti da Livi si convertono a poco a poco in minacciose trame di disamore dalle venature acide e urticanti. E il linguaggio, "uno scavo nella coscienza", si fa motore di una ricerca che ha per oggetto non solo l'atto di narrazione, ma il sé narrante nella sua mutevole e contraddittoria interezza.
Tutto, in questi racconti, "diviene" sotto i nostri occhi: l'autrice guarda da lontano e all'improvviso si avvicina, zooma e controzooma, osserva, fotografa, accosta, assembla, taglia, compie lente panoramiche sul suo oggetto e poi lo attraversa, alla lettera lo infilza, con un battito di ciglia. Il suo è un sapiente lavoro di composizione, che parla di ritmo e di arte del silenzio.
In duetti d'amore dove attrazione e ripulsa si intrecciano e si avvicendano come nella vita, capita spesso che il primo piano di lei si alterni a quello del figlio e che, d'un tratto, la lente si sposti su un elemento all'apparenza insignificante – insetto, utensile domestico, arredo – la cui funzione è invece proprio di focalizzare lo sguardo e di avviare un'imprevista catena associativa. Perché per Livi, "la prosa deve ininterrottamente fondarsi sull'unicità dell'esperienza", che di per sé è materia inafferrabile se non attraverso un paziente e assiduo lavoro di autoanalisi e al contempo di osservazione meticolosa della realtà. Scrivere, un atto di perigliosa necessità alla ricerca di se stessi, è "fare e rifare all'infinito. Il viaggio è dall'approssimazione alla esattezza massima". Un viaggio che si compie mediante le parole, ridestandole "da quel giacimento oscuro, grumoso" che è l'esperienza di vita non pensata, assediata dal rumore dell'inevitabilità.
In questi racconti la variabile temporale è non a caso il vero spazio fisico dell'azione: nella preistoria dell'infanzia, epoca annegata nell'onnipotenza materna sul figlio e del figlio sulla madre, epoca smemorata dove sembra non accadere nulla, sono proprio gli interstizi, le smagliature, gli asincronismi il luogo da perlustrare, da investigare. E per farlo è necessario lasciarsi inondare dall'emozione. "Senza emozione, la scrittura è morta", sosteneva Katherine Mansfield, scrittrice molto amata da Livi, "contemplare l'oggetto non è sufficiente". L'intelligenza, nel senso etimologico di capacità di penetrare le cose collegandole tra loro, nasce infatti da un trasalimento emotivo, dalla disponibilità a lasciarsi solcare, forse ferire, dalla passione per l'altro, che spesso si annida dentro di noi.
Segrete, piene di chiaroscuri, mai inclini a spiegare o interpretare, le pagine di Livi chiedono a chi legge un ascolto attento e un'immedesimazione altissima. Al cuore della relazione indagata dall'autrice c'è infatti il tema del "diventare", che percorre dolorosamente ogni storia di liberazione e la stessa vita. Per crescere bisogna staccarsi, per far crescere bisogna lasciare andare. Non è un processo di separazione, bensì di individuazione, di riconoscimento di sé e dell'altro: due individualità, invece di una fusione.
Maria Nadotti
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