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recensione di Massenzio, A., L'Indice 1997, n. 8
Esiste un motivo particolare che inclina l'impegno di Gianni Celati verso l'opera di Jonathan Swift? Viene in mente la sua traduzione di "A tale of a Tub", l'altro grande capolavoro del diacono inglese, e insieme l'immagine della stessa "favola" dipinta da Bruegel, che Celati accosta a quel libro, in pagine illuminanti, riconoscendo tra loro stretti vincoli di parentela.Un'occhiata distratta ai suoi "Parlamenti buffi" (Feltrinelli, 1989) può confermare l'impressione iniziale, se notiamo sulla copertina la riproduzione di un quadro dello stesso pittore, soprattutto considerando l'importanza assunta dalle immagini nei suoi ultimi libri, da "Quattro novelle sulle apparenze" (Feltrinelli, 1987) a "Narratori delle pianure" (Feltrinelli, 1985).
L'attenzione verso ciò che Celati ha definito più volte come "senso comune", costituisce forse un primo punto d'incontro, ovvero l'interesse per forme e tematiche proprie di un patrimonio culturale e popolare custodito dalla collettività. Ecco un esempio nella pittura di Bruegel che affolla i suoi quadri con immagini tratte da proverbi, parabole e modi di dire. Ed ecco Swift, due secoli dopo nel "Gulliver" e in "A tale of a Tub", denunciare, a metà fra rassegnazione e furore, che quel "raziocinio pratico" con il mondo moderno non ha più nulla a che fare. Al suo posto un sapere fondato sull'invenzione e sulla scoperta, su astrazioni ed elucubrazioni, guida frotte di scienziati, intellettuali e, in testa a tutti, politici, lungo le strade oltremodo nefaste e battute dell'inganno verbale, del fraintendimento. Pensiamo dunque al già citato "Narratori delle pianure", nato proprio come raccolta di storie che lo scrittore narra o rielabora dopo averle ascoltate dalle voci di persone incontrate durante un viaggio lungo il corso del Po.
Non solo. Entrambi gli autori articolano tali contenuti entro le forme dell'immaginazione fantastica più libera. L'ingegneria dello stile costruisce quindi un ambiente da favola o "fola" dove è possibile vagabondare col nostro eroe, saltando senza posa da un'avventura all'altra, attraverso situazioni rocambolesche, che scoperchiano anomalie e alienazioni del genere umano: temi che ritornano con una certa frequenza anche sulle tele dell'artista fiammingo. Questo intrattenimento verbale diventa svago e divertimento nelle opere dell'autore e del traduttore del "Gulliver" perché una vena umoristica amalgama il tono della narrazione.I "Viaggi", come i "Parlamenti", in forme diverse, tendono infatti a ritrarre del personaggio il profilo caricaturale nei suoi risvolti psicolologici, seguendo una via intrapresa da antenati come Teofilo Folengo, cui Celati ricollega Swift e se stesso.In questa tradizione incrociamo altre importanti personalità che amavano comicamente "menar la lingua", producendo torrenti di parole in piena nei quali i nostri autori si trovano a confluire.Se infatti da un lato le opere di Folengo e Rabelais (segnate dal pensiero di Erasmo da Rotterdam, come la stessa pittura di Bruegel) sono vicine alla narrazione di Swift, dall'altro esse s'incontrano con quella del contemporaneo Ruzante.
Il terzo "quadro" del Gulliver offre uno spunto per illuminare meglio queste parentele nascoste.Il protagonista è finito a Laputa, l'"Isola (non a caso) volante", dove incontra abitanti costantemente immersi nello studio di un qualche problema scientifico al punto da cadere in una sorta di catalessi soporifera che li rende ciechi e sordi al mondo esterno.Non è possibile infatti comunicare con alcuno di loro fino al momento in cui un aiutante, gli tira con garbo un colpo sugli occhi e sulle orecchie distratte, adoperando un particolare bastone munito in cima di "vescica" sonante.
La traduzione di questa parte, e dell'intero libro, si colora di espressioni tipiche del vocabolario di Gianni Celati, della sua frase burlesca, o volutamente gergale, sempre in sintonia con i suoni e le tecniche del dettato di Swift, che rivela situazioni e oggetti comuni attraverso definizioni bizzarre e inusuali, capaci di imprimere nuove tonalità all'osservazione consueta. In accordo con tale "sonorità" della descrizione, certe parole in questa versione si tingono di sfumature originali ed estrose, tradendo qua e là una mano esperta in fatto di "chiacchiere", che lascia gustare l'arguzia tagliente dell'opera, shakerando lo stile settecentesco con opportune spruzzate di comicità. In quest'ottica dunque, l'inglese "flapper" (ovvero il lapuziano addetto al risveglio, da altri reso ad esempio con "flagellatore"), a sorpresa, si fa "batacchiaro", lo strumento che usa è il "batacchio", il suo compito non è tanto colpire quanto, all'occorrenza, vibrare al dormiente una "batacchiata". Così all'interno di un quadro che innesca a catena le sue esplosive, strabilianti invenzioni, illustrando sotto una luce nuova le stranezze dell'uomo, le sue follie inverosimili, sottili orrori e quotidiane stupidità, il disegno brilla per l'ironia, e scintilla sotto il pennello del traduttore mentre il lettore non può altro che ridere e godersi la scena.
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